Gallico *iuos "Taxus baccata"


«Il tasso (ivin in bretone) è l'albero dell'immortalità perché sempreverde e di una longevità straordinaria. I cimiteri bretoni senza tassi non sono veri cimiteri. Ha anche la fama di essere il più antico degli alberi. La mazza del dio druido Daghda era di tasso così come la sua ruota. Si scrivevano incantesimi in ogham su legno di tasso. Quest'albero ha anche un simbolismo militare: si facevano scudi e aste di lancia con il suo legno.»

Tratto da: Divi Kervella, Emblèmes et symboles des Bretons et des Celtes, Coop Breizh, Spézet 1998, p. 17.



Il “tasso sanguinante” di Nevern 

<br><br>Il “tasso sanguinante” di Nevern <br><br>


Il “tasso sanguinante” (stillante linfa rossa) del cimitero della chiesa di Saint Brynach a Nevern, Pembrokeshire (Galles).







mercoledì 22 dicembre 2010

Le kannerezed-noz. 6ª parte



Natura e caratteristiche delle «lavandaie della notte» bretoni

Nelle sei testimonianze folcloriche principali, e in gran parte di quelle accennate solo da P. Sébillot (specie della Bassa Bretagna), le «lavandaie notturne» — che in bretone, come s’è visto [→ 2ª parte], hanno tre diverse denominazioni [1] — appaiono come spiriti ostili, che lavano di notte la biancheria, costituita in Le Men anche di lenzuoli, in Souvestre solo di sudari (i propri e quello della vittima) [2]; in Luzel invece, se nel primo racconto (La Lavandière de nuit) vediamo la «lavandière» lavare del filo e non della biancheria, è soltanto perché la protagonista-vittima nell’episodio narrato è dedita alla filatura. Inoltre, a differenza che in Le Men, nelle altre storie o credenze non c’è alcun riferimento alle ore dispari della notte [3].

Si tratta, in Souvestre, di «donne bianche» — «femmes blanches» — e per lo più, almeno in apparenza o all’inizio, giovani e belle: «mes petites colombes», «les belles lavandières», le chiama Wilherm Postik . Sia in Souvestre [4] che in Le Men sono revenants («femmes-spectres», come le chiama J. Berthou) che possono farsi incontro ai viandanti; in Cadic possono apparire all’improvviso ove si sta lavando.
In Souvestre Wilherm ne incontra che fondamentalmente compiono due gruppi di azioni: stendono i lenzuoli («noi asciughiamo»; il «noi cuciamo» sembra riferito alla cucitura del sudario sul cadavere di chi dovrà morire di lì a poco) e preannunciano la morte; lavano i lenzuoli funebri e li presentano per la torcitura.
Le kannerezed al lavatoio cantano: «Se un cristiano non viene a salvarci / fino al Giudizio dovremo lavare»: non è detto in che consista il salvamento, né d’altra parte Wilherm ha le caratteristiche di un «cristiano salvatore» [5]. Forse per “salvamento” si deve intendere la sostituzione nella pena da parte di un’altra anima [6]?
Quel che è espressamente detto, all’inizio del testo di Souvestre, è che i vivi possono «riscattare» le anime di «quelli che bruciano nel purgatorio» [7]. E invece le parenti di Wilherm (e tutte le altre lavandaie che lo attorniano), gridando «Mille sventure a chi lascia i suoi bruciare all’inferno!», fanno pensare che tale grido alluda piuttosto alla loro stessa condizione [8]: sono quindi quelle «lavandaie» anime dannate o il narratore (più che Souvestre stesso) confonde i due luoghi ultraterreni? Sarebbe più “logico” rispondere che tutte le kannerezed sono anime del Purgatorio, condizione che collimerebbe con quanto esposto sui morti fin dall’inizio, nel primo paragrafo della parte introduttiva della leggenda:
I Bretoni sono i figli del peccato, come gli altri, ma amano i loro morti; hanno pietà di quelli che bruciano nel purgatorio e cercano di riscattarli dal fuoco di prova. [9]
In questo caso le kannerezed sarebbero “anime purganti” e al tempo stesso spettri annunciatori-distributori di morte, più “individuati” e “personali” dell’Ankou.

Va qui evidenziato che manca in Souvestre ogni informazione relativa alle specifiche colpe commesse dalle kannerezed (da ognuna o da gruppi di esse): secondo J. Berthou perché «l’interesse [...] si è spostato dalle Lavandaie verso la vittima», che non fa quanto dovrebbe fare almeno nella notte dei Morti, ovvero pregare per i propri defunti [10]. È invece chiaramente descritta la pena: lavare il proprio sudario (fino al Giudizio), al lavatoio, battendolo con una bianca mestola.
Non si tratta infatti, come invece in Le Men, di una pena determinata del tutto corrispondente al tipo di colpe commesse, secondo il principio del contrappasso; per errori di diversa natura [11] credo sussista invece un’unica forma di penitenza: le kannerezed non lavano generica biancheria, ma solo il proprio lenzuolo mortuario e quello di colui al quale preannunciano la morte. Come sarebbe possibile infatti avere così numerosi revenants di negligenti e avare lavandaie — di mestiere — ad ogni lavatoio, sia pure alla vigilia del 2 novembre (quando cioè la sera le anime dei morti convengono presso i luoghi frequentati in vita)? Si può spiegare quel tipo di pena semplicemente con il fatto che tutte quelle donne morte (forse solo delle popolane) da vive hanno fatto il bucato al lavatoio che frequentano in quanto kannerezed-noz [12].
Non è ad ogni modo da escludere che il racconto presenti qualche incongruenza od elemento controverso in quanto prodotto di una (ri)elaborazione compiuta — forse dall’informatore o da un narratore precedente — utilizzando motivi e contenuti narrativi diversi: la Toussaint (Ognissanti) e il 2 novembre, gli Anaon (i defunti), le «lavandières de nuit», la vita dissoluta e la morte di un tale Wilherm Postik.

In Le Men, che non accenna né a bellezza né a giovinezza, le «lavandaie» sono mosse da spirito di vendetta e il loro scopo è di «rompere le braccia» dei malcapitati: se questo corrisponda a ucciderli non è chiaro, ma è probabile, anche perché Le Men parla di «supplizio», né mi pare si concili cristianamente con l’obbligo della penitenza imposta da Dio, che si addice più ad anime del Purgatorio che ad anime dannate, quali sembrerebbero invece questi spettri vendicativi.
In Le Braz, nel racconto non vien detto in maniera esplicita che si tratti di uno spettro; infatti lo si evince dal contesto in cui la storia è inserita dal raccoglitore: il capitolo XIX, dedicato a Les morts malfaisants, vale a dire i revenants malintenzionati (anime dannate) [13].
La maouès-noz non risulta né particolarmente bella né giovane; è senz’altro maligna, ma non viene detto — i paesani bretoni però lo sapevano di sicuro — che cosa avrebbe combinato una volta entrata in casa della vittima.

Al contrario, in Luzel è la stessa «lavandaia» a rivelare quale fine avrebbe fatto Marianna, qualora — come la Fanta di Celle qui lavait la nuit — non avesse avuto un marito ben più saggio di lei: sarebbe stata bollita assieme al figlio nel pentolone (noi diremmo piuttosto: nella caldaia) della liscivia.
Sono palesi le analogie con il racconto di Le Braz: non solo l’intervento del marito più accorto, ma anche lo stesso tipo di rimedio e i poteri delle «lavandaie», pur cambiando gli oggetti, in conseguenza delle diverse circostanze: là il treppiede, la scopa, l’acqua dei piedi; qua l’arcolaio e la conocchia, la pentola e l’acqua, i tizzoni. Simili ancora la buona volontà e il senso dell’economia delle due spose.
Possono sorprendere — di fronte alla natura di revenants delle «lavandaie della notte» bretoni fin qui considerate — sia l’attività (piuttosto) di filatrice sia le caratteristiche “diaboliche”, di strega, della prima «lavandaia» in Luzel: la vecchiezza anormale notata solo più tardi, gli occhi come carboni ardenti, il pentolone per cuocere Marianna e il (in realtà, un) figlio, la stessa convinzione del marito di Marianna che quella donna venisse «da parte del diavolo» [14] e il fatto che nell’ultima parte il narratore precisi: «essa era anche una strega» e continui a designarla proprio soltanto col nome di «strega» [15].
Forse questo racconto comprende elementi (motivi, figure) in origine appartenuti più propriamente a tipi narrativi differenti rispetto alla leggenda delle lavandières de nuit (considerata pure nelle sue varianti), che si ritrova invece alla base delle altre testimonianze riportate da Luzel stesso: La lavandière de nuit. Soezic, La lavandière de nuit du douet de Plougonven, Les lavandiéres de nuit de Pont-ar-Goazcan. Penso appunto a qualche storia di streghe, più che non di filatrici dell’Altro Mondo [16], e a quei racconti degli altri Paesi celtici nei quali sono gli esseri fatati o i morti che comandano agli oggetti [17]. È certo che il racconto è stato “rimaneggiato” — e nessuno può stupirsene — ed è in qualche modo “datato” dal particolare della «rapidità di una macchina a vapore».

In Cadic — lo si è visto [→ 4ª parte] — si parla di tre categorie di «lavandaie»:
a) quelle che sono condannate a battere con la mestola e a torcere la propria biancheria perchè in vita hanno lavorato — forse da intendersi in senso generale — nel giorno del Signore;
b) le «lavandaie penitenti di Brennilis» che cantano sulle rive dell’Ellez, dimostrando di accettare con una certa gaiezza la punizione inflitta loro (probabilmente per una colpa più lieve);
c) le vere e proprie kannerezed-noz, che da vive sono state delle malelingue o hanno rovinato la biancheria che persone povere avevano dato loro da lavare (cfr. Le Men).
In realtà, il racconto riferito poi da Cadic — quasi ad esemplificazione —, che ha come personaggi tre kannerezed e Jeannic C. di Brennilis, si discosta parecchio dal quadro delineato in precedenza da quel raccoglitore (utilizzando Le Men e Cambry). Infatti non solo la prima kannerez è descritta come un essere straordinariamente spaventoso, gigantesco, magrissimo e con denti enormi, ma anche, proprio perché dalle loro mani cola del sangue e non hanno alcun potere su Jeannic in quanto madre di molti figli, tutte e tre sembrano piuttosto essersi macchiate di infanticidio (si pensi a «les menus objets» lavati dalla prima) che non di maldicenza e avarizia [18].
La leggenda, raccolta evidentemente da Cadic a Brennilis, e, forse, ormai priva di ogni riferimento diretto a madri infanticide, sarebbe stata inserita dunque in un contesto al quale si adatta solo per alcuni tratti, a maggior ragione perché, tra le credenze e le leggende bretoni analoghe di cui sono a conoscenza, è l’unica a contenere il motivo del sangue che esce dalle mani o da panni lavati/strizzati [19]. Infatti, l’esempio menzionato da Paul Sébillot, tratto da una lettera di Luzel, si differenzia in alcuni elementi: le Kannerez-Noz presentano la loro biancheria ai passanti; si trovano avvolti in questa dei neonati che gridano e dai quali «cola il sangue»; quindi le lavandaie appaiono più esplicitamente come (madri) infanticide.
Un altro aspetto singolare del documento folclorico di Cadic in esame si trova nell’accenno all’«uomo che lavava» di Poul-er-Pont (Trinité-sur-Mer), da identificarsi nel Pautr Poul-er-Pont, di cui narra Zacharie Le Rouzic in Carnac, légendes, traditions, coutumes et contes du pays, Nantes, 1909 e 1912, p. 105 [20]. Pautr Poul-er-Pont appartiene alla categoria dei Paotred, ‘ragazzi’, «esseri della notte» numerosi un tempo nella zona di Carnac e dediti più che altro a spaventare o fare scherzi [21]. Si tratta, credo, dell’unico caso di “lavandaio della notte” — in senso lato — della Bassa Bretagna, mentre dovrebbe esserlo, per l’alta Bretagna, il Lavous de nuit, un essere fantastico che si configura come corrispettivo maschile delle «lavandaie di notte» più malintenzionate, perché arriva a rompere le braccia a chi l’aiuta (il teurdous, altrettanto malevolo, è invece un «torcitore») [→ 5ª parte].

Se si ritrova dunque, nelle pagine riportate da Le Roux - Guyonvarc’h e in Cadic (ma meno nel primo racconto registrato da Luzel), uno stesso tema folclorico ritenuto di origine mitica, credenze e leggende però non sempre corrispondono in ogni elemento o esplicitano in modo chiaro e completo quanto appartiene a quella particolare tradizione. Talvolta, come si è visto, compaiono persino oscillazioni all’interno della stessa testimonianza.


[1] Francesco Benozzo s’è occupato delle «lavandaie notturne» bretoni in un suo recente articolo, intitolato Le lavandaie notturne nel folklore europeo: per una stratigrafia preistorica [F. Benozzo (2009): 2, 9]. Ad esse attribuisce:
a) tre distinti nomi bretoni: kannérez-noz, ritenuto «specifico» (in effetti l’unico dei tre), «ankou (specifico)», «groac’h (generico)»;
b) tre diverse immagini: «donne vecchie e spaventose», «figure femminili giovani e attraenti», «dame bianche»;
c) una serie di cinque «caratteristiche della leggenda», tra cui tre sostanzialmente esatte (le attività, i colpi sul lavatoio e il canto, il ritornello) e due non del tutto: «invitano i passanti a strizzare gli indumenti bagnati: se chi accetta torce gli indumenti nel verso opposto a quello della lavandaia cade in disgrazia e può anche morire» (in realtà, in genere viene ucciso), «sono spesso considerate spiriti di donne morte di parto» (in realtà, non vi sono morte di parto tra le «lavandaie notturne»).
Inoltre Benozzo, ricordando che Ankou è anche «il nome della personificazione della Morte nella tradizione bretone», afferma: «l’Ankou è infatti descritta nelle leggende armoricane come una vecchia dai capelli bianchi, vestita di nero, che porta via le anime dei defunti, e che compare in prossimità dei fiumi». L’Ankoù [forse dal celtico insulare *ku- ‘morto’; cfr. X. Delamarre (2008), s. v. nepo-] è però un personaggio maschile che si muove con la sua carretta per le antiche strade di Bretagna e compare là dove qualcuno sta per trapassare, e non può essere confuso con alcun tipo di «lavandaia» [cfr. D. Kervella, E. Seure-Le Bihan (2001), s. v. Ankoù, e A. Le Braz (1990): t. I, pp. 111-6].
Ciò vale anche per la gwrac’h o groac’h, ‘vecchia (donna o fata-strega)’ [da *urakkā], che è spesso una sirena o una fata malvagia [cfr. A. Deshayes (2003): 316; A. Le Braz (1990): t. II, p. 143; Gw. Le Scouëzec (1986): 273; D. Kervella, E. Seure-Le Bihan (2001), s. v. Gwrac’h].
In effetti, come fonti Benozzo ha utilizzato quasi esclusivamente la raccolta Leggende della Bretagna misteriosa e, per la caratteristica delle «donne morte di parto», A. Croix, Les Bretons, la morte et Dieu de 1600 à nos jours, Paris, Temps Actuels, 1984, p. 69; non cita poi l’opera da cui avrebbe tratto le notizie relative all’Ankoù.

[2] Cfr. P.-Y. Sébillot (1998): 182.

[3] In A. Le Braz (1990): t. I, p. 301, si riferisce che se è proprio necessario passare di notte per un cimitero, per evitare danni bisogna farlo nelle ore dispari.

[4] Souvestre definisce in nota le kannérez-noz «lavandières-fantômes» [É. Souvestre (2000): 102].

[5] Nel testo bretone registrato da Souvestre viene usata proprio l’espressione: kristen salver, ‘cristiano salvatore’ [É. Souvestre (2000): 107 (nota); Gw. Le Scouëzec (1986): 271].

[6] P.-Y. Sébillot [(1998): 182] rileva come nei diversi racconti non venga detto ciò che un «cristiano salvatore» debba fare per liberare le lavandaie, «a meno che questo risultato non sia ottenuto facendolo morire».
J. Berthou (comunicazione personale — lettera del 13.2.1994) ritiene che «nous sauver» significhi procurare un sollievo, un alleviamento del castigo («soulagement du châtiment») — inflitto alle lavandaie, nelle quali si posson riconoscere delle «anime in pena».

[7] É. Souvestre (2000): 102.

[8] Nel grido si potrebbe avere eventualmente un riferimento, universale, alle anime dannate e, particolare, al padre di Wilherm, morto «senza aver ricevuto l’assoluzione» [Gw. Le Scouëzec (1986): 34]. In ogni modo, quel «lascia i suoi bruciare all’inferno» risulta in disaccordo con «bruciano nel purgatorio».

[9] É. Souvestre (2000): 102.
Secondo J. Berthou (comunicazione personale citata sopra) «all’inferno» potrebbe essere il frutto di un’«esagerazione romantica» di Souvestre od un errore, poiché è più probabile che le «lavandières» siano revenants del Purgatorio.

[10] J. Berthou (1993): 10. Berthou sottolinea come Wilherm non abbia pregato per l’anima delle parenti morte l’anno prima, cioè si sia sottratto al dovere di «aiutare le anime dei morti in pena».

[11] Riguardo alle colpe delle «lavandaie» in Souvestre, Berthou (comunicazione personale citata sopra) le considera «innumerevoli», a iniziare dalla principale, l’infanticidio. La gravità di questo, però, a mio parere porrebbe le stesse kannerezed-noz infanticide tra le anime dannate dell’Inferno, la qual cosa mi pare abbastanza in contrasto con l’opinione espressami da Berthou, riferita nelle note 6 e 8.

[12] P.-Y. Sébillot [(1998): 182], riguardo alla «famiglia di donne dannate» (le parenti di Wilherm Postik), osserva: «se non fossero lavandaie di professione, è difficile ammettere che tutte da vive avessero lavato della biancheria nei momenti proibiti».

[13] Revenants dai quali ci si può difendere se si è in tre, tutti battezzati, o se si ha con sé un proprio strumento di lavoro, ritenuto «sacré» [A. Le Braz (1990): t. II, pp. 203-5].
D. Kervella definisce efficacemente la Maouez-noz un «tipo di fantasma femminile notturno e pericoloso che attacca briga con le donne che rimangono a lavorare la notte. Essa cerca di entrare nelle case» ed è «talvolta confusa con la Kannerez-noz» [D. Kervella, E. Seure-Le Bihan (2001): 108].

[14] Poiché in A. Le Braz (1990): t. II, pp. 203-4, a proposito di morts malfaisants si afferma che «per difendersi dai malefici di un fantasma» bisogna gridargli (non dimenticando di dargli del tu): «– Se vieni da parte di Dio, esprimi il tuo desiderio. Se vieni da parte del diavolo, vattene per la tua strada, come io per la mia!», si potrebbe con fondatezza ritenere che tutti i morti maligni — ivi compresa la «strega» del racconto di Marianna Kerbernès — «vengano da parte del diavolo» e quindi siano revenants dannati.
Sempre in Le Braz, nel racconto intitolato L’histoire de Marie-Job Kerguénou, la protagonista, una notte, durante il suo settimanale viaggio di ritorno all’Ile-Grande dal mercato di Lannion, fermatasi la sua carretta perché il cavallo inspiegabilmente non va più avanti, tracciando in aria una croce con la frusta usa una formula analoga nei confronti di quell’entità invisibile che secondo lei sta ostacolando il suo cammino: «ordino alla cosa o alla persona che è qui e che non vedo, di dichiarare se viene da parte di Dio o del diavolo» [t. II (cap. XVII: Les revenants), p. 130]. In realtà si tratta anche in questo caso di un revenant, ma non un dannato, bensì un morto che grazie all’aiuto di Marie-Job potrà finalmente «saldare un debito».
Da notare due fatti: il gesto e la frase di Marie-Job hanno valore di scongiuro contro esseri malefici, anche, a quanto pare, diversi dai defunti («ordino alla cosa o alla persona»); pur non avendo a che fare con un morto maligno, in questo e in altri casi chi entra in contatto con un ritornante muore poco dopo — qui poi è il morto stesso a preannunciare l’imminente decesso.

[15] Jean Berthou attribuisce più semplicemente al termine «sorcière» il significato di «essere malevolo, malefico» («être malveillant» o «malfaisant»), che varrebbe sia per la storia di Fanta sia per quella di Marianna (comunicazione personale — lettera del 13.2.1994). In questi due racconti le lavandaie, in quanto «sorcières», manifesterebbero una «malvagità gratuita», mentre nelle altre testimonianze, pur dimostrandosi «vendicative», non paiono provar piacere nell’uccidere le loro vittime (lettera di J. Berthou del 5.1.1994).

[16] Sul tema folclorico del «filare», cfr. J. Cooper (1993): 76-8 e 112.

[17] Cfr. A. Le Braz (1990): t. I, pp. XXX-XXXI.

[18] È di questo parere anche Berthou [J. Berthou (1993): 12].

[19] D. Kervella ricorda che le kannerez-noz «lavano la loro biancheria o i lenzuoli — talvolta sgocciolanti sangue — di coloro che devono ben presto morire» [D. Kervella, E. Seure-Le Bihan (2001): 79]. Ritengo in effetti, per quanto detto sopra, che qui «talvolta sgocciolanti» sia eccessivo, per di più riferito da Kervella a lenzuoli funerari di persone prossime a morire, e non a biancheria di neonati o bambini uccisi dalle madri (né tanto meno a spoglie di personaggi come Cúchulainn).

[20] Citato in A. Le Braz (1990): t. , p. 239.

[21] Gw. Le Scouëzec (1986b): 126; Gw. Le Scouëzec (1989): 167-8; D. Kervella, E. Seure-Le Bihan (2001): 122-3.

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