Gallico *iuos "Taxus baccata"


«Il tasso (ivin in bretone) è l'albero dell'immortalità perché sempreverde e di una longevità straordinaria. I cimiteri bretoni senza tassi non sono veri cimiteri. Ha anche la fama di essere il più antico degli alberi. La mazza del dio druido Daghda era di tasso così come la sua ruota. Si scrivevano incantesimi in ogham su legno di tasso. Quest'albero ha anche un simbolismo militare: si facevano scudi e aste di lancia con il suo legno.»

Tratto da: Divi Kervella, Emblèmes et symboles des Bretons et des Celtes, Coop Breizh, Spézet 1998, p. 17.



Il “tasso sanguinante” di Nevern 

<br><br>Il “tasso sanguinante” di Nevern <br><br>


Il “tasso sanguinante” (stillante linfa rossa) del cimitero della chiesa di Saint Brynach a Nevern, Pembrokeshire (Galles).







mercoledì 22 dicembre 2010

Le kannerezed-noz. 7ª parte




Revenantes

Vediamo ora di definire, per quanto possibile, in maniera più precisa la condizione di fondo e gli aspetti primari delle lavandières de nuit bretoni fin qui esaminati, muovendo innanzi tutto dalle conclusioni, dalle sintesi cui son pervenuti alcuni studiosi.

Secondo Gw. Berthou-Kerverzhioù, queste «sono “anime erranti”, in “purgatorio”, che stanno espiando i loro peccati, — sono allora indifferenti o benevole, — o in “inferno per l’eternità”; — sono allora generalmente malefiche. È un gruppo secondario nell’insieme dei “Revenants”, che fanno o rifanno quaggiù dopo la morte ciò che non hanno fatto (dovendolo fare) o hanno fatto male da vivi.» E inoltre — ci dice ancora Berthou-Kerverzhioù — stando a quanto precisano Souvestre e Le men, può trattarsi anche di donne «che di notte lavano della biancheria misteriosa come punizione delle loro colpe. Altre volte non sono che spiriti malefici, i quali non sono necessariamente degli “spiriti umani disincarnati”. In Scozia, nelle Isole Ebridi, la lavandaia di notte lava il sudario di quelli che moriranno entro l’anno...» [1].

Per Gw. Le Scouëzec le kannerezed-noz costituiscono una categoria dell’insieme comprendente gli «esseri della Notte» e i defunti (Anaon), tutti esseri appartenenti ad un «mondo intermedio» posto tra l’Altro Mondo e il nostro [2]. Si tratta di particolari Anaon di sesso femminile, «il cui incontro è quasi sempre fatale agli esseri umani», loro parenti, cui «fortuitamente» accade di imbattersi in esse attorno ai lavatoi [3]. Ne Le Guide de la Bretagne, l’Autore ricorda la presenza delle «lavandaie della notte» in due luoghi: nella zona di Brasparts e attorno a un vecchio lavatoio nei pressi di Commana. Ecco quanto riferisce delle credenze relative alla prima località:
Tra il tramontare e il sorgere del sole, queste donne, grandi e magre, vanno ai lavatoi di questo mondo a fare il bucato dei sudari: Sono gli Anaon, delle anime che nell’Aldilà attendono la loro liberazione e devono lavorare, in remissione dei loro peccati. Lo sventurato che le incontra riconosce in mezzo ad esse delle parenti defunte: queste lo supplicano di aiutarle, lo costringono persino a strizzare i sudari. Bisogna sempre allora girare nel loro stesso senso, e guardarsi bene dal torcere la biancheria: altrimenti, il sangue del maldestro se ne andrebbe [«le sang du maladroit s’en écoulerait»], egli cadrebbe morto, le mani rotte dalla stretta di ferro delle lavandaie. [4]
Paul-Yves Sébillot, ne La Bretagne et ses traditions, pone le «lavandières de nuit» tra i «revenants notturni così numerosi nelle tradizioni bretoni», i quali «per ragioni diverse, compiono delle penitenze sulla terra».
Queste dipendono da quattro (e probabilmente più) diversi motivi, non tutti corrispondenti a colpe commesse in vita dalle «revenantes»:
a) l’uccisione dei propri figli (Ille-et-Vilaine);
b) il danneggiamento della biancheria della povera gente, per lo sfregamento di pietre al posto del sapone (Basse-Bretagne);
c) l’utilizzo di un sudario non pulito per la salma di una donna morta, che quindi come revenante dovrà lavarlo tutte le notti (Haute-Bretagne);
d) l’aver lavato la biancheria di domenica: in questo caso le «lavandières» tornano a lavare di notte e talvolta anche di giorno, proprio all’ora e nel luogo in cui è stato commesso quel peccato, «ma allora sono invisibili per la maggior parte del tempo» (Ille-et-Vilaine) [5].

Nella Présentation al catalogo da lui redatto, Jean Berthou afferma che il castigo delle Lavandaie «può essere eterno», dipendendo ovviamente dalle colpe commesse. Sulla base di queste, enumerate in successione di gravità crescente, egli divide le Lavandaie in quattro categorie (per l’appunto, le sole che a me risultano attestate):
a) le maldicenti (numerose presso i lavatoi da tempo immemorabile);
b) quante hanno lavato di domenica;
c) quelle che (economizzando sul sapone) hanno rovinato la biancheria altrui;
d) le infanticide, il cui peccato è «imperdonabile» [6].
Immagino che Berthou abbia pensato anzitutto a queste ultime nel prospettare per alcune Lavandaie un castigo «eterno». D’altra parte, nel catalogo, l’unico testo folclorico sulle «lavandaie» bretoni associabile in qualche modo all’infanticidio è quello di Cadic, che tuttavia — come ho già rilevato [→ e 6ª parte].— è una testimonianza piuttosto eterogenea.
Inoltre Berthou — nel paragrafo che precede il passo sui quattro tipi di colpa — proprio là dove, riferendosi alle leggende raccolte da Luzel e Le Braz, ha appena ricordato sia i poteri magici (sulle cose) di quella specie di «divinità inferiori» che sono le «lavandaie», sia i contro-poteri — le conjurations — trasmessi di generazione in generazione, continua il capoverso osservando che il potere delle Lavandières non è illimitato: «è debole sulle partorienti [femmes en couches] e nullo sulle madri di famiglia numerosa». Se questa completa mancanza di potere è esemplificata dalla storia di Jeannic C. di Brennilis (Cadic), sul potere debole sulle partorienti non mi risulta vi sia alcun cenno né in A. Le Braz (1990) né nei testi d’ambito bretone riportati nel catalogo stesso: da quale documento folclorico bretone Berthou avrà mai tratto tale credenza [7]?

Giacché nella maggior parte delle testimonianze esaminate le lavandières de nuit si comportano in maniera ostile verso i vivi, cercando, tutto sommato, di farli morire (o forse in qualche caso causare loro una grave menomazione), è verosimile che si tratti piuttosto di anime dannate. Ciò non toglie che, come è testimoniato da più raccoglitori e studiosi di folclore bretone, fossero diffuse, nella Bretagna del XIX secolo, credenze concernenti anime in pena del purgatorio — revenants tipici — che quaggiù debbano espiare le loro colpe, meno gravi, commesse in vita (si pensi, ad esempio, alle «lavandaie penitenti di Brennilis» menzionate da Cadic, e anche forse alle lavandaie che invitano i passanti a proseguire per la loro strada); e perfino credenze e leggende in cui compaiono assieme, in modo “contraddittorio”, elementi specifici dell’una e dell’altra categoria di anime. Infatti, come giustamente ha rilevato Gwenc’hlan Le Scouëzec a proposito degli Anaon, «la distinzione cattolica tra purgatorio e inferno» non sempre è così netta per i Bretoni [8].

Non manca inoltre alla tradizione bretone un tipo di «lavandaia della notte» diverso da quello che Le Braz pone tra les morts malfaisants: una «lavandaia» che si limita ad annunciare una morte imminente, poiché lava il sudario del morto e ne indica chiaramente l’identità — come fanno in Souvestre le due «femmes blanches» incontrate da Wilherm subito dopo l’Ankou.
Su questa messaggera della morte, che si può dunque collocare tra queste e la banshee (irl. bean sí) irlandese e ancor meglio la bean nighe delle Highlands [9], conosco solo la storia intitolata L’intersigne de «l’étang», narrata a Le Braz da Jean-Pierre Dupont, nella città di Quimper (Finistère) [10]. In essa si racconta di una ragazzina che, una domenica sera, inviata come altre volte dalla madre a Penhars a cercare il padre nelle osterie, e vista sulla riva di uno stagno a lato della strada una lavandaia che portava la cuffia e le vesti tipiche del paese, le rivolge la parola secondo l’uso appreso, e così si sente preannunciare per il giorno seguente la morte del padre. In effetti questi, ritornato a casa con la figlia e sedutosi accanto al focolare con la sua scodella di zuppa, viene raggiunto dalla morte poco dopo [11]. Dal dettaglio dell’abbigliamento di foggia locale della lavandaia si può supporre che si tratti di una morta, forse la più recente, della parrocchia.
A tale particolare «lavandière» si possono avvicinare quelle dei dintorni di Dinan, menzionate da P. Sébillot [→ 5ª parte], la cui «apparizione presagisce un decesso», che però lavano le ossa dei propri figli «morti senza battesimo» — e in questo fatto consiste presumibilmente la loro colpa.

Non si può dunque concordare pienamente con Léon Marillier su quanto detto, nell’«introduzione alla prima edizione» (1892) de La Légende de la Mort, riguardo agli «esseri malefici e pericolosi, il cui incontro è funesto», vale a dire «les laveuses de nuit (kanerez-noz), le crieur de nuit (ar hopper-noz), le petit enfant de la nuit (ar buguel-noz)» e la stessa maouez-noz. Per Marillier questi esseri popolano la notte così come le «anime dei morti», ma «non sono mai stati dei vivi», «sono di un’altra razza rispetto alla razza degli uomini [12]; sembrano tuttavia far parte dello stesso mondo di cui fan parte i morti». E ancora: «È molto difficile sapere quel che sono esattamente le lavandaie della notte; sembra proprio che non appartengano alla stessa razza dei vivi, ma hanno tuttavia l’apparenza di donne normali». L’Autore poi azzarda una sua congettura: «Forse tutti quegli esseri soprannaturali erano originariamente dei morti e sono solamente i nomi particolari che essi hanno ricevuto o le funzioni speciali che l’immaginazione popolare ha loro attribuito, che li hanno innanzitutto separati dalla folla delle altre anime. Il fossato si è scavato sempre più in profondità e s’è finito per considerarli non più come delle anime, ma come degli spiriti» [13].

In conclusione, le «lavandaie della notte» tipiche — così come ci vengono delineate in alcuni importanti documenti folclorici (specialmente quelli di Souvestre, Le Men, Cadic ed in parte Le Braz e Luzel), pur sempre appartenenti ad un ambiente cristian(izzat)o — paiono essere dei particolari revenants molto simili a spiriti notturni malefici, e pertanto a questi assimilabili, fermo restando che in altri casi — in un contesto narrativo-folclorico meno o apparentemente non cristian(izzat)o — si mostrino o vengano presentati dai folcloristi piuttosto come esseri maligni soprannaturali (in modo particolare nel racconto La Lavandière de nuit raccolto da Luzel e nel testo della De Cerny). Si può inoltre accettare, in via ipotetica, che la loro origine possa risalire, almeno in parte, alla mitologia celtica.


[1] Gw. Berthou-Kerverzhioù (1950): 124.
Secondo quanto riferisce G. Dottin, la «lavandaia di notte» delle Ebridi lava gli abiti di chi annegherà entro l’anno. È comunque un avvertimento di morte vicina; per evitare la sua azione malefica, bisogna vederla prima di esser visti da lei [A. Le Braz (1990): t. II, p. 239 (nota 2)].

[2] Gw. Le Scouëzec (1986b): 125-7.

[3] Gw. Le Scouëzec (1989): 14.

[4] Gw. Le Scouëzec (1989): 126, 180.
Con l’espressione «le sang du maladroit s’en écoulerait», Le Scouëzec si riferisce o a una vera e propria morte per dissanguamento (assai rara nei racconti bretoni) o a un decesso simile negli effetti (la vita che vien meno, si spegne a poco a poco), il che consentirebbe parimenti di mantenere l’analogia con la biancheria strizzata che perde via via buona parte dell’acqua di cui è imbevuta.
Invece nel racconto Les lavandières de la nuit, ambientato tra Beauvais, la Valle senza Ritorno e Tréhorenteuc (Alta Bretagna), la vittima delle «lavandaie della notte» non muore “strizzata”, schiacciata, stritolata, battuta o per rottura degli arti (oppure soprattutto «soffocata», come sostiene J. Berthou — si veda infra), ma perché il lenzuolo gli si appiccica alla pelle. In tale leggenda un giornaliero di nome Menou torce dalla parte sbagliata (verso sinistra) un lenzuolo che alcune lavandaie della notte gli hanno porto; queste — che non vengono definite fantasmi, revenantes, bensì «des femmes toutes blanches, des fées qui lavaient leurs draps» — scompaiono subito dopo e Menou si ritrova col lenzuolo incollato alla pelle. Ritrovato mezzo morto la mattina seguente, viene portato all’ospedale ma muore tre giorni dopo [Carrefour de Trécélien (2000): 167-9].
Diverso ancora il metodo con cui le lavandaie uccidono le proprie vittime in P.-Y. Sébillot [(1998): 183]: quando il malcapitato si ritrova con le mani imprigionate nel lenzuolo, le altre lavandaie lo colpiscono a morte con dei lenzuoli strizzati.
Secondo J. Berthou (comunicazione personale — lettera del 5.1.1994), i narratori non si soffermano sul modo di morire delle vittime: «elles meurent étouffées, c’est tout ; pas question de sang versé, de souffrance».

[5] P.-Y. Sébillot (1998): 181.

[6] J. Berthou (1993): 12.

[7] Jean Cooper riferisce di un’antica usanza bretone che consisteva nell’invitare a un parto (accouchement) le fate [J. Cooper (1993): 65]. Con tutta evidenza si tratta di esseri soprannaturali benefici, all’opposto delle «lavandaie della notte».

[8] Gw. Le Scouëzec (1989): 14. Cfr. anche A. Le Braz (1990): t. I, p. LI.
Per F. Morvan le lavandières de nuit non possono esser ritenute delle «fate delle acque», bensì (come lo sono le Dames blanches) «piuttosto delle revenantes, condannate a lavare e rilavare» della biancheria «per ragioni diverse». In alcune località le fate delle acque sono scomparse, soppiantate dalle «lavandaie»: così, ad esempio, Le Men nel Finistère non ha rintracciato che «lavandaie» condannate «a una pena eterna per aver lesinato sul sapone» [F. Morvan (1999): 120]. Però, che la penitenza debba essere proprio eterna da Le Men non vien detto.

[9] Cfr., tra le varie opere consultabili (e i dizionari citati fin qui), D. Kervella, E. Seure-Le Bihan (2001): s. vv. Bean Sí, Bean nigheadaireachd.

[10] Cfr. P. Sébillot (1968): 428.

[11] A. Le Braz (1990): t. I, pp. 59-62. Nell’indice, sotto la voce lavandières de nuit è segnata anche la p. 60 del I tomo, a dimostrazione del fatto che anche la lavandaia dell’intersigne dello stagno va considerata tra les lavandières de nuit.

[12] Una tale ipotesi, secondo Paul Sébillot, non è verosimile perché non suffragata dalla documentazione di cui si dispone [P. Sébillot (1968): 425].

[13] A. Le Braz (1990): t. II, pp. 434-6.

Le kannerezed-noz. 6ª parte



Natura e caratteristiche delle «lavandaie della notte» bretoni

Nelle sei testimonianze folcloriche principali, e in gran parte di quelle accennate solo da P. Sébillot (specie della Bassa Bretagna), le «lavandaie notturne» — che in bretone, come s’è visto [→ 2ª parte], hanno tre diverse denominazioni [1] — appaiono come spiriti ostili, che lavano di notte la biancheria, costituita in Le Men anche di lenzuoli, in Souvestre solo di sudari (i propri e quello della vittima) [2]; in Luzel invece, se nel primo racconto (La Lavandière de nuit) vediamo la «lavandière» lavare del filo e non della biancheria, è soltanto perché la protagonista-vittima nell’episodio narrato è dedita alla filatura. Inoltre, a differenza che in Le Men, nelle altre storie o credenze non c’è alcun riferimento alle ore dispari della notte [3].

Si tratta, in Souvestre, di «donne bianche» — «femmes blanches» — e per lo più, almeno in apparenza o all’inizio, giovani e belle: «mes petites colombes», «les belles lavandières», le chiama Wilherm Postik . Sia in Souvestre [4] che in Le Men sono revenants («femmes-spectres», come le chiama J. Berthou) che possono farsi incontro ai viandanti; in Cadic possono apparire all’improvviso ove si sta lavando.
In Souvestre Wilherm ne incontra che fondamentalmente compiono due gruppi di azioni: stendono i lenzuoli («noi asciughiamo»; il «noi cuciamo» sembra riferito alla cucitura del sudario sul cadavere di chi dovrà morire di lì a poco) e preannunciano la morte; lavano i lenzuoli funebri e li presentano per la torcitura.
Le kannerezed al lavatoio cantano: «Se un cristiano non viene a salvarci / fino al Giudizio dovremo lavare»: non è detto in che consista il salvamento, né d’altra parte Wilherm ha le caratteristiche di un «cristiano salvatore» [5]. Forse per “salvamento” si deve intendere la sostituzione nella pena da parte di un’altra anima [6]?
Quel che è espressamente detto, all’inizio del testo di Souvestre, è che i vivi possono «riscattare» le anime di «quelli che bruciano nel purgatorio» [7]. E invece le parenti di Wilherm (e tutte le altre lavandaie che lo attorniano), gridando «Mille sventure a chi lascia i suoi bruciare all’inferno!», fanno pensare che tale grido alluda piuttosto alla loro stessa condizione [8]: sono quindi quelle «lavandaie» anime dannate o il narratore (più che Souvestre stesso) confonde i due luoghi ultraterreni? Sarebbe più “logico” rispondere che tutte le kannerezed sono anime del Purgatorio, condizione che collimerebbe con quanto esposto sui morti fin dall’inizio, nel primo paragrafo della parte introduttiva della leggenda:
I Bretoni sono i figli del peccato, come gli altri, ma amano i loro morti; hanno pietà di quelli che bruciano nel purgatorio e cercano di riscattarli dal fuoco di prova. [9]
In questo caso le kannerezed sarebbero “anime purganti” e al tempo stesso spettri annunciatori-distributori di morte, più “individuati” e “personali” dell’Ankou.

Va qui evidenziato che manca in Souvestre ogni informazione relativa alle specifiche colpe commesse dalle kannerezed (da ognuna o da gruppi di esse): secondo J. Berthou perché «l’interesse [...] si è spostato dalle Lavandaie verso la vittima», che non fa quanto dovrebbe fare almeno nella notte dei Morti, ovvero pregare per i propri defunti [10]. È invece chiaramente descritta la pena: lavare il proprio sudario (fino al Giudizio), al lavatoio, battendolo con una bianca mestola.
Non si tratta infatti, come invece in Le Men, di una pena determinata del tutto corrispondente al tipo di colpe commesse, secondo il principio del contrappasso; per errori di diversa natura [11] credo sussista invece un’unica forma di penitenza: le kannerezed non lavano generica biancheria, ma solo il proprio lenzuolo mortuario e quello di colui al quale preannunciano la morte. Come sarebbe possibile infatti avere così numerosi revenants di negligenti e avare lavandaie — di mestiere — ad ogni lavatoio, sia pure alla vigilia del 2 novembre (quando cioè la sera le anime dei morti convengono presso i luoghi frequentati in vita)? Si può spiegare quel tipo di pena semplicemente con il fatto che tutte quelle donne morte (forse solo delle popolane) da vive hanno fatto il bucato al lavatoio che frequentano in quanto kannerezed-noz [12].
Non è ad ogni modo da escludere che il racconto presenti qualche incongruenza od elemento controverso in quanto prodotto di una (ri)elaborazione compiuta — forse dall’informatore o da un narratore precedente — utilizzando motivi e contenuti narrativi diversi: la Toussaint (Ognissanti) e il 2 novembre, gli Anaon (i defunti), le «lavandières de nuit», la vita dissoluta e la morte di un tale Wilherm Postik.

In Le Men, che non accenna né a bellezza né a giovinezza, le «lavandaie» sono mosse da spirito di vendetta e il loro scopo è di «rompere le braccia» dei malcapitati: se questo corrisponda a ucciderli non è chiaro, ma è probabile, anche perché Le Men parla di «supplizio», né mi pare si concili cristianamente con l’obbligo della penitenza imposta da Dio, che si addice più ad anime del Purgatorio che ad anime dannate, quali sembrerebbero invece questi spettri vendicativi.
In Le Braz, nel racconto non vien detto in maniera esplicita che si tratti di uno spettro; infatti lo si evince dal contesto in cui la storia è inserita dal raccoglitore: il capitolo XIX, dedicato a Les morts malfaisants, vale a dire i revenants malintenzionati (anime dannate) [13].
La maouès-noz non risulta né particolarmente bella né giovane; è senz’altro maligna, ma non viene detto — i paesani bretoni però lo sapevano di sicuro — che cosa avrebbe combinato una volta entrata in casa della vittima.

Al contrario, in Luzel è la stessa «lavandaia» a rivelare quale fine avrebbe fatto Marianna, qualora — come la Fanta di Celle qui lavait la nuit — non avesse avuto un marito ben più saggio di lei: sarebbe stata bollita assieme al figlio nel pentolone (noi diremmo piuttosto: nella caldaia) della liscivia.
Sono palesi le analogie con il racconto di Le Braz: non solo l’intervento del marito più accorto, ma anche lo stesso tipo di rimedio e i poteri delle «lavandaie», pur cambiando gli oggetti, in conseguenza delle diverse circostanze: là il treppiede, la scopa, l’acqua dei piedi; qua l’arcolaio e la conocchia, la pentola e l’acqua, i tizzoni. Simili ancora la buona volontà e il senso dell’economia delle due spose.
Possono sorprendere — di fronte alla natura di revenants delle «lavandaie della notte» bretoni fin qui considerate — sia l’attività (piuttosto) di filatrice sia le caratteristiche “diaboliche”, di strega, della prima «lavandaia» in Luzel: la vecchiezza anormale notata solo più tardi, gli occhi come carboni ardenti, il pentolone per cuocere Marianna e il (in realtà, un) figlio, la stessa convinzione del marito di Marianna che quella donna venisse «da parte del diavolo» [14] e il fatto che nell’ultima parte il narratore precisi: «essa era anche una strega» e continui a designarla proprio soltanto col nome di «strega» [15].
Forse questo racconto comprende elementi (motivi, figure) in origine appartenuti più propriamente a tipi narrativi differenti rispetto alla leggenda delle lavandières de nuit (considerata pure nelle sue varianti), che si ritrova invece alla base delle altre testimonianze riportate da Luzel stesso: La lavandière de nuit. Soezic, La lavandière de nuit du douet de Plougonven, Les lavandiéres de nuit de Pont-ar-Goazcan. Penso appunto a qualche storia di streghe, più che non di filatrici dell’Altro Mondo [16], e a quei racconti degli altri Paesi celtici nei quali sono gli esseri fatati o i morti che comandano agli oggetti [17]. È certo che il racconto è stato “rimaneggiato” — e nessuno può stupirsene — ed è in qualche modo “datato” dal particolare della «rapidità di una macchina a vapore».

In Cadic — lo si è visto [→ 4ª parte] — si parla di tre categorie di «lavandaie»:
a) quelle che sono condannate a battere con la mestola e a torcere la propria biancheria perchè in vita hanno lavorato — forse da intendersi in senso generale — nel giorno del Signore;
b) le «lavandaie penitenti di Brennilis» che cantano sulle rive dell’Ellez, dimostrando di accettare con una certa gaiezza la punizione inflitta loro (probabilmente per una colpa più lieve);
c) le vere e proprie kannerezed-noz, che da vive sono state delle malelingue o hanno rovinato la biancheria che persone povere avevano dato loro da lavare (cfr. Le Men).
In realtà, il racconto riferito poi da Cadic — quasi ad esemplificazione —, che ha come personaggi tre kannerezed e Jeannic C. di Brennilis, si discosta parecchio dal quadro delineato in precedenza da quel raccoglitore (utilizzando Le Men e Cambry). Infatti non solo la prima kannerez è descritta come un essere straordinariamente spaventoso, gigantesco, magrissimo e con denti enormi, ma anche, proprio perché dalle loro mani cola del sangue e non hanno alcun potere su Jeannic in quanto madre di molti figli, tutte e tre sembrano piuttosto essersi macchiate di infanticidio (si pensi a «les menus objets» lavati dalla prima) che non di maldicenza e avarizia [18].
La leggenda, raccolta evidentemente da Cadic a Brennilis, e, forse, ormai priva di ogni riferimento diretto a madri infanticide, sarebbe stata inserita dunque in un contesto al quale si adatta solo per alcuni tratti, a maggior ragione perché, tra le credenze e le leggende bretoni analoghe di cui sono a conoscenza, è l’unica a contenere il motivo del sangue che esce dalle mani o da panni lavati/strizzati [19]. Infatti, l’esempio menzionato da Paul Sébillot, tratto da una lettera di Luzel, si differenzia in alcuni elementi: le Kannerez-Noz presentano la loro biancheria ai passanti; si trovano avvolti in questa dei neonati che gridano e dai quali «cola il sangue»; quindi le lavandaie appaiono più esplicitamente come (madri) infanticide.
Un altro aspetto singolare del documento folclorico di Cadic in esame si trova nell’accenno all’«uomo che lavava» di Poul-er-Pont (Trinité-sur-Mer), da identificarsi nel Pautr Poul-er-Pont, di cui narra Zacharie Le Rouzic in Carnac, légendes, traditions, coutumes et contes du pays, Nantes, 1909 e 1912, p. 105 [20]. Pautr Poul-er-Pont appartiene alla categoria dei Paotred, ‘ragazzi’, «esseri della notte» numerosi un tempo nella zona di Carnac e dediti più che altro a spaventare o fare scherzi [21]. Si tratta, credo, dell’unico caso di “lavandaio della notte” — in senso lato — della Bassa Bretagna, mentre dovrebbe esserlo, per l’alta Bretagna, il Lavous de nuit, un essere fantastico che si configura come corrispettivo maschile delle «lavandaie di notte» più malintenzionate, perché arriva a rompere le braccia a chi l’aiuta (il teurdous, altrettanto malevolo, è invece un «torcitore») [→ 5ª parte].

Se si ritrova dunque, nelle pagine riportate da Le Roux - Guyonvarc’h e in Cadic (ma meno nel primo racconto registrato da Luzel), uno stesso tema folclorico ritenuto di origine mitica, credenze e leggende però non sempre corrispondono in ogni elemento o esplicitano in modo chiaro e completo quanto appartiene a quella particolare tradizione. Talvolta, come si è visto, compaiono persino oscillazioni all’interno della stessa testimonianza.


[1] Francesco Benozzo s’è occupato delle «lavandaie notturne» bretoni in un suo recente articolo, intitolato Le lavandaie notturne nel folklore europeo: per una stratigrafia preistorica [F. Benozzo (2009): 2, 9]. Ad esse attribuisce:
a) tre distinti nomi bretoni: kannérez-noz, ritenuto «specifico» (in effetti l’unico dei tre), «ankou (specifico)», «groac’h (generico)»;
b) tre diverse immagini: «donne vecchie e spaventose», «figure femminili giovani e attraenti», «dame bianche»;
c) una serie di cinque «caratteristiche della leggenda», tra cui tre sostanzialmente esatte (le attività, i colpi sul lavatoio e il canto, il ritornello) e due non del tutto: «invitano i passanti a strizzare gli indumenti bagnati: se chi accetta torce gli indumenti nel verso opposto a quello della lavandaia cade in disgrazia e può anche morire» (in realtà, in genere viene ucciso), «sono spesso considerate spiriti di donne morte di parto» (in realtà, non vi sono morte di parto tra le «lavandaie notturne»).
Inoltre Benozzo, ricordando che Ankou è anche «il nome della personificazione della Morte nella tradizione bretone», afferma: «l’Ankou è infatti descritta nelle leggende armoricane come una vecchia dai capelli bianchi, vestita di nero, che porta via le anime dei defunti, e che compare in prossimità dei fiumi». L’Ankoù [forse dal celtico insulare *ku- ‘morto’; cfr. X. Delamarre (2008), s. v. nepo-] è però un personaggio maschile che si muove con la sua carretta per le antiche strade di Bretagna e compare là dove qualcuno sta per trapassare, e non può essere confuso con alcun tipo di «lavandaia» [cfr. D. Kervella, E. Seure-Le Bihan (2001), s. v. Ankoù, e A. Le Braz (1990): t. I, pp. 111-6].
Ciò vale anche per la gwrac’h o groac’h, ‘vecchia (donna o fata-strega)’ [da *urakkā], che è spesso una sirena o una fata malvagia [cfr. A. Deshayes (2003): 316; A. Le Braz (1990): t. II, p. 143; Gw. Le Scouëzec (1986): 273; D. Kervella, E. Seure-Le Bihan (2001), s. v. Gwrac’h].
In effetti, come fonti Benozzo ha utilizzato quasi esclusivamente la raccolta Leggende della Bretagna misteriosa e, per la caratteristica delle «donne morte di parto», A. Croix, Les Bretons, la morte et Dieu de 1600 à nos jours, Paris, Temps Actuels, 1984, p. 69; non cita poi l’opera da cui avrebbe tratto le notizie relative all’Ankoù.

[2] Cfr. P.-Y. Sébillot (1998): 182.

[3] In A. Le Braz (1990): t. I, p. 301, si riferisce che se è proprio necessario passare di notte per un cimitero, per evitare danni bisogna farlo nelle ore dispari.

[4] Souvestre definisce in nota le kannérez-noz «lavandières-fantômes» [É. Souvestre (2000): 102].

[5] Nel testo bretone registrato da Souvestre viene usata proprio l’espressione: kristen salver, ‘cristiano salvatore’ [É. Souvestre (2000): 107 (nota); Gw. Le Scouëzec (1986): 271].

[6] P.-Y. Sébillot [(1998): 182] rileva come nei diversi racconti non venga detto ciò che un «cristiano salvatore» debba fare per liberare le lavandaie, «a meno che questo risultato non sia ottenuto facendolo morire».
J. Berthou (comunicazione personale — lettera del 13.2.1994) ritiene che «nous sauver» significhi procurare un sollievo, un alleviamento del castigo («soulagement du châtiment») — inflitto alle lavandaie, nelle quali si posson riconoscere delle «anime in pena».

[7] É. Souvestre (2000): 102.

[8] Nel grido si potrebbe avere eventualmente un riferimento, universale, alle anime dannate e, particolare, al padre di Wilherm, morto «senza aver ricevuto l’assoluzione» [Gw. Le Scouëzec (1986): 34]. In ogni modo, quel «lascia i suoi bruciare all’inferno» risulta in disaccordo con «bruciano nel purgatorio».

[9] É. Souvestre (2000): 102.
Secondo J. Berthou (comunicazione personale citata sopra) «all’inferno» potrebbe essere il frutto di un’«esagerazione romantica» di Souvestre od un errore, poiché è più probabile che le «lavandières» siano revenants del Purgatorio.

[10] J. Berthou (1993): 10. Berthou sottolinea come Wilherm non abbia pregato per l’anima delle parenti morte l’anno prima, cioè si sia sottratto al dovere di «aiutare le anime dei morti in pena».

[11] Riguardo alle colpe delle «lavandaie» in Souvestre, Berthou (comunicazione personale citata sopra) le considera «innumerevoli», a iniziare dalla principale, l’infanticidio. La gravità di questo, però, a mio parere porrebbe le stesse kannerezed-noz infanticide tra le anime dannate dell’Inferno, la qual cosa mi pare abbastanza in contrasto con l’opinione espressami da Berthou, riferita nelle note 6 e 8.

[12] P.-Y. Sébillot [(1998): 182], riguardo alla «famiglia di donne dannate» (le parenti di Wilherm Postik), osserva: «se non fossero lavandaie di professione, è difficile ammettere che tutte da vive avessero lavato della biancheria nei momenti proibiti».

[13] Revenants dai quali ci si può difendere se si è in tre, tutti battezzati, o se si ha con sé un proprio strumento di lavoro, ritenuto «sacré» [A. Le Braz (1990): t. II, pp. 203-5].
D. Kervella definisce efficacemente la Maouez-noz un «tipo di fantasma femminile notturno e pericoloso che attacca briga con le donne che rimangono a lavorare la notte. Essa cerca di entrare nelle case» ed è «talvolta confusa con la Kannerez-noz» [D. Kervella, E. Seure-Le Bihan (2001): 108].

[14] Poiché in A. Le Braz (1990): t. II, pp. 203-4, a proposito di morts malfaisants si afferma che «per difendersi dai malefici di un fantasma» bisogna gridargli (non dimenticando di dargli del tu): «– Se vieni da parte di Dio, esprimi il tuo desiderio. Se vieni da parte del diavolo, vattene per la tua strada, come io per la mia!», si potrebbe con fondatezza ritenere che tutti i morti maligni — ivi compresa la «strega» del racconto di Marianna Kerbernès — «vengano da parte del diavolo» e quindi siano revenants dannati.
Sempre in Le Braz, nel racconto intitolato L’histoire de Marie-Job Kerguénou, la protagonista, una notte, durante il suo settimanale viaggio di ritorno all’Ile-Grande dal mercato di Lannion, fermatasi la sua carretta perché il cavallo inspiegabilmente non va più avanti, tracciando in aria una croce con la frusta usa una formula analoga nei confronti di quell’entità invisibile che secondo lei sta ostacolando il suo cammino: «ordino alla cosa o alla persona che è qui e che non vedo, di dichiarare se viene da parte di Dio o del diavolo» [t. II (cap. XVII: Les revenants), p. 130]. In realtà si tratta anche in questo caso di un revenant, ma non un dannato, bensì un morto che grazie all’aiuto di Marie-Job potrà finalmente «saldare un debito».
Da notare due fatti: il gesto e la frase di Marie-Job hanno valore di scongiuro contro esseri malefici, anche, a quanto pare, diversi dai defunti («ordino alla cosa o alla persona»); pur non avendo a che fare con un morto maligno, in questo e in altri casi chi entra in contatto con un ritornante muore poco dopo — qui poi è il morto stesso a preannunciare l’imminente decesso.

[15] Jean Berthou attribuisce più semplicemente al termine «sorcière» il significato di «essere malevolo, malefico» («être malveillant» o «malfaisant»), che varrebbe sia per la storia di Fanta sia per quella di Marianna (comunicazione personale — lettera del 13.2.1994). In questi due racconti le lavandaie, in quanto «sorcières», manifesterebbero una «malvagità gratuita», mentre nelle altre testimonianze, pur dimostrandosi «vendicative», non paiono provar piacere nell’uccidere le loro vittime (lettera di J. Berthou del 5.1.1994).

[16] Sul tema folclorico del «filare», cfr. J. Cooper (1993): 76-8 e 112.

[17] Cfr. A. Le Braz (1990): t. I, pp. XXX-XXXI.

[18] È di questo parere anche Berthou [J. Berthou (1993): 12].

[19] D. Kervella ricorda che le kannerez-noz «lavano la loro biancheria o i lenzuoli — talvolta sgocciolanti sangue — di coloro che devono ben presto morire» [D. Kervella, E. Seure-Le Bihan (2001): 79]. Ritengo in effetti, per quanto detto sopra, che qui «talvolta sgocciolanti» sia eccessivo, per di più riferito da Kervella a lenzuoli funerari di persone prossime a morire, e non a biancheria di neonati o bambini uccisi dalle madri (né tanto meno a spoglie di personaggi come Cúchulainn).

[20] Citato in A. Le Braz (1990): t. , p. 239.

[21] Gw. Le Scouëzec (1986b): 126; Gw. Le Scouëzec (1989): 167-8; D. Kervella, E. Seure-Le Bihan (2001): 122-3.

mercoledì 15 dicembre 2010

Le kannerezed-noz. 5ª parte



Paul Sébillot, Paul-Yves Sébillot

L’etnologo Paul Sébillot (1843-1918) dedica ai «personnages surnaturels» o «revenants» che fanno il bucato di giorno e soprattutto di notte — quindi anche alle «lavandières» bretoni —, alcune pagine del II tomo del suo Le folk-lore de France (prima edizione del 1905), nei paragrafi intitolati Les lessives merveilleuses [1] e Habitants et hantises des rivières [2].
Per quanto concerne credenze e leggende bretoni, Sébillot richiama e riassume diverse testimonianze folcloriche, raccolte sia nell’Alta che nella Bassa Bretagna, cui accenno brevemente qui sotto.
 
Les lessives merveilleuses
• Le fate dell’Alta Bretagna lavavano e stendevano sull’erba della biancheria candida; chi fosse riuscito a raggiungerla senza battere le palpebre, avrebbe potuto portarsela via. Alcune lavavano dalla mezzanotte in poi la biancheria portata ai lavatoi da lavandaie umane, che la ritrovavano al mattino perfettamente pulita [«Paul Sébillot. Trad. de la Haute-Bretagne, t. I, p. 92. 124»].
• Vi sono «lavandaie di notte» malefiche «che non si accontentano di attendere le persone presso il lavatoio, ma che penetrano nelle case», come è narrato nella storia Celle qui lavait la nuit, che Sébillot ripropone in forma sommaria [«A. Le Braz. Légende de la Mort, t. II, p. 259-263»], e in un racconto analogo riportato da F.-M. Luzel [«in Société archéologique du Finistère, t. XXI, p. 461»].
• Il bucato notturno, per la gran parte dei casi, è la punizione imposta a donne morte, che «espiano un crimine o un peccato grave commesso nel corso della loro vita». Nel dipartimento d’Ille-et-Vilaine si parla di madri infanticide che «cercano invano di far sparire la traccia del loro misfatto» [«Paul Sébillot. Traditions de la Haute-Bretagne, t. I, p. 229»].
• «La biancheria che le Kannerez-Noz di Bassa Bretagna presentano ai passanti contiene talvolta un neonato che grida e da cui cola il sangue» [«Paul Sébillot. Littérature orale de la Haute-Bretagne, p. 203. D’après une lettre de F. M. Luzel»].
• Nei dintorni di Dinan alcune lavandaie notturne lavano «le ossa dei figli morti senza battesimo; la loro apparizione presagisce un decesso» [«Lucie de V.-H., in Rev. des Trad. pop., t. XV, p. 620»].
• In Alta Bretagna le donne che hanno lavato di domenica devono espiare tale colpa al lavatoio, all’ora stessa, del giorno o della notte, «in cui hanno violato il riposo domenicale»; per la gran parte del tempo risultano invisibili [«Paul Sébillot. Trad. de la Haute-Bretagne, t. I, p. 248»].
• Le «lavandaie di notte» della Bassa Bretagna («du pays bretonnant») hanno strofinato con troppa energia la biancheria dei poveri «per economizzare il sapone»; come riferito da Le Men, per penitenza devono lavare nelle ore dispari della notte e trasportar pietre, però Sébillot non accenna all’uso delle pietre stesse nello sfregare i panni [3] [«Le Men, in Revue Celtique, t. I, p. 421»].
• A Chantepie (Ille-et-Vilaine), al lavatoio tutte le notti una vedova lava il lenzuolo, sporco e bucato, nel quale per avarizia aveva sepolto il marito [«A. Orain. Promenade d’automne aux environs de Rennes. Rennes, 1884, p. 12. Si racconta che il marito uscì dalla tomba e le consegnò il sudario che lei, da viva, dovette cercar di pulire»]. In alcuni paesi dell’Alta Bretagna si crede invece che a tornare ogni notte a lavare sia una morta che è stata avvolta in un lenzuolo sporco [«Paul Sébillot. Notes sur les traditions, p. 6»].
• Nelle vicinanze del lavatoio del castello del Plessix-Pillet — narra una leggenda dei dintorni di Rennes — si sente a mezzanotte battere una mestola: è una levatrice che non è riuscita a pulire la camicia macchiata di sangue affidatale da lavare, a notte fonda, dal signore di Changé, quando questi s’era reciso una vena «per firmare un patto col diavolo» [«A. Orain. Le sire de Changé. Rennes, s. d., in-12, p. 14»].
• Secondo Paul Féval, le «lavandaie di notte» del Morbihan cantano un ritornello «la cui origine popolare è abbastanza dubbia: “Torci lo straccio, / Torci / Il sudario delle spose dei morti”» (“Tors [sic] la guenille, / Tors / Le suaire des épouses des morts”) [«Paul Féval. Les Dernières fées»].
• Nel canto delle «lavandaie di notte» della Bassa Bretagna, dove talvolta vengon denominate Kannerez Noz, «chanteuses de nuit», vi è la spiegazione della «natura del loro supplizio» e del «modo in cui finirà: “Fino a che non venga un cristiano salvatore; – dobbiamo lavare il nostro lenzuolo, – sotto la neve e il vento” [4] [elemento tratto da Les Lavandières de nuit, in «E. Souvestre. Le Foyer Breton, t. I, p. 152»]. "Kannerez noz". Illustrazione di Erwan Seure-Le Bihan
• Una donna di Dinan, che si era alzata prima dell’alba per recarsi «au doué des Noes Gourdais», vi trovò già al lavoro una persona, più mattiniera di lei. «Quando giunse a breve distanza dalla lavandaia, questa stese il braccio che teneva la mestola, come per farle segno di non avanzare». Solo allora la donna si accorse che la testa della lavandaia era un teschio. Tale «lavandaia-scheletro» apparve nello stesso luogo a più riprese [«Paul Sébillot. Littérature orale, p. 202 ; Traditions, t. I, p. 250» — ringrazio Erwan Seure Le Bihan per avermi permesso di riprodurre qui accanto una delle sue belle illustrazioni].
• In Bassa Bretagna — Sébillot riassume la leggenda L’intersigne de «l’étang» raccolta da A. Le Braz [(1990): t. I, pp. 59-62] e di cui dirò più avanti [→ 7ª parte] — di notte una ragazza passa presso uno stagno e vede sulla riva opposta una lavandaia vestita «à la mode du pays»; allora le rivolge la parola e la donna risponde che sta lavando il lenzuolo nel quale il giorno seguente verrà seppellito il padre stesso della ragazza [«A. Le Braz. Légende de la Mort, t. I, p. 52»].
• Nella prima menzione scritta relativa alla credenza («probabilmente antica») alle «lavandaie di notte» (menzione «ni très détaillée, ni très précise»), risalente alla fine del XVIII secolo — nel Voyage dans le Finistère di J. Cambry —, si dice: «les Laveuses, ar cannerez-noz (les chanteuses de nuit) vous invitent à tordre leur linge, vous cassent les bras si vous les aidez de mauvaise grâce, et vous noient si vous le refusez». Il rischio di venir affogati, osserva Sébillot, non si ritrova nei racconti raccolti successivamente [«Cambry. Voyage dans le Finistère, p. 40»].
• Boucher de Perthes dà notizia di una cannerez-nooz (nome che, erroneamente — rileva Sébillot —, traduce con «laveuse» al posto di «chanteuse de nuit»), che si può incontrare presso alcune fontane: essa presenta un lenzuolo da torcere ai viandanti e girandolo nel medesimo senso arriva a mozzar loro le mani [«Boucher de Perthes. Chants armoricains, p. 204»].
• Delle lavandaie pregarono una donna di Landéda (Finistère), che a notte inoltrata stava tornando da un pranzo di battesimo, di dar loro una mano. Poiché lo faceva male, la minacciavano con le mestole. Allora intervenne quella che sembrava la loro superiora, dicendo alla donna: «Sei proprio fortunata ad aver portato un innocente in chiesa; diversamente t’avrei così bene torta, disattorta, ritorta, che mai dipanatore di matasse non sarebbe stato capace di dipanare ciò che io avrei fatto di te» [«L. F. Sauvé, in Annuaire des Trad. pop., 1888, p. 16-18»].
• «Un garçon» (da intendersi forse come «uno scapolo») del Léon, che aveva trascorso allegramente la notte di Ognissanti, presso un lavatoio si imbatté nelle Kannerez-noz, «chanteuses de nuit»; si tratta della leggenda Les Lavandières de nuit raccolta da Souvestre, che Sébillot ripropone nelle linee essenziali [«E. Souvestre. Le Foyer Breton, t. I, p. 152-154»].
• «In Alta Bretagna, non si raccontano storie così tragiche; ma si crede che sia pericoloso sbagliare senso nel torcere la biancheria con le lavandaie di notte» [«Paul Sébillot. Trad. de la Haute-Bretagne, t. I, p. 248»].
• A La Roche-Derrien si ritiene che si debba torcere nell’altro senso il lenzuolo, per evitare che si gonfi e non ne sgoccioli più l’acqua, bensì vi si scorga un cadavere, e «la fée» quindi giri più in fretta, attragga il malcapitato fino a gettargli sulla spalla una piega del sudario e ad avvolgerglielo intorno [«N. Quellien. Contes et nouvelles du Pays de Tréguier, p. 76»].
• Nei dintorni di Dinan «un personaggio maschile, la cui natura non è nettamente determinata», il teurdous (torcitore), non lava ma offre alle lavandaie il suo aiuto nello strizzare la biancheria, e se queste accettano, rompe loro le braccia [«Paul Sébillot. Notes sur les trad. de la Haute-Bretagne, ext. de l’Archivio, p. 5»].
 
Tali testimonianze relative alla Bretagna si alternano, ovviamente, ad altre analoghe di diversa provenienza regionale o dipartimentale.
Gli ultimi tre capoversi del paragrafo sono dedicati unicamente alla spiegazione razionale dell’origine della «superstizione delle lavandaie di notte» e alla «ripartizione geografica» della credenza.
La «superstizione» — a parere di alcuni — potrebbe essere nata in persone che, udendo di notte i versi di una specie di rana o di un piccolo rospo, li hanno scambiati appunto per i colpi di una mestola da lavandaia. È poi possibile che alcune lavandaie notturne non siano delle revenantes, bensì donne viventi che durante il giorno non hanno avuto tempo per lavare, o che si vergognano di farsi vedere mentre svolgono un lavoro «al di sotto della propria condizione».
La credenza alle «lavandaie di notte» risulta diffusa specialmente nella Francia occidentale, in particolar modo in Bretagna: dei 32 esempi rilevati da Sébillot nel capitolo V: Les eaux dormantes (pp. 388-466), 24 provengono dall’Ovest, 8 dalla Bassa Bretagna, 9 dall’Alta Bretagna; a questi vanno aggiunte 3 leggende bretoni di revenantes che lavano presso i fiumi (due dell’Alta Bretagna, una della Bassa Bretagna).
 
Habitants et hantises des rivières [5]
• Nei dintorni del ponte di Kergoet (Morbihan) appare una lavandaia revenante. Si ritiene sia una epilettica, annegatasi mentre lavava, che ritorna per compiere la sua penitenza; se riuscisse a toccare un passante lo trascinerebbe nel canale [«F. Marquer, in Rev. des Trad. pop., t. VII, p. 69»].
• A Calorguen, presso Dinan, la sera di Ognissanti si sentono tre colpi di mestola dati da una donna che perse la vita lavando sulla riva del canale [«Paul Sébillot. Trad. de la Haute-Bretagne, t. I, p. 250-251»].
• Sotto antichi ponti che si trovano nelle vicinanze di Bécherel e Tinténiac (Ille-et-Vilaine), dopo le 22 vi sono delle donne che lavano; quando gli ci si avvicina, si vede «una specie di luce» e le lavandaie «dicono: “Seguite la vostra strada, io faccio ciò che mi è ordinato”» [«Paul Sébillot. Les Travaux publics, p. 197»].
• Presso il ponte di Planche, passaggio obbligato lungo la strada tra Saint-Malo e Saint-Servan, «delle lavandaie filano con i loro capelli bianchi i lenzuoli che esse lavano»; se un giovane che passa di là a mezzanotte risponde ai loro lazzi, le lavandaie «lo costringono a torcere assieme a loro e gli spezzano gli arti» [«F. Duine, in Rev. des Trad. pop., t. XV, p. 505»].
• Le rive di fiumi e canali dei dintorni di Dinan erano frequentate un tempo da lavandaie notturne «abbastanza mal definite», ma malvagie; queste fermavano le chiatte e facevano girare le imbarcazioni all’alaggio come trottole, così da far andare a fondo cavalli e conduttori [«Elvire de Cerny. Contes et légendes de Bretagne, p. 25»].
 
Sébillot riporta anche, come unico caso riscontrato di «lavandaio di notte», la tradizione alto-bretone relativa al Lavous de nuit, essere molto temuto — una specie particolare di lupo mannaro —, che compare, sia pur abbastanza di rado, lungo i ruscelli. Si comporta come le «lavandaie di notte»: rompe gli arti a chi accetta di aiutarlo a strizzare la biancheria; è però «senza potere sugli uomini che portano su di sé un oggetto benedetto, e sembra anche obbligato a rifiutare i loro favori» [«Lucie de V.-H., in Rev. des Trad. pop., t. XV, p. 620»] [6].
 
In alcune pagine de La Bretagne et ses traditions [7] Paul-Yves Sébillot si occupa delle «laveuses» o «lavandières de nuit» bretoni, che ritiene «revenants notturni» cui è imposto come penitenza di lavare della biancheria.
Riprendendo prima di tutto alcuni degli esempi rilevati dal padre — non senza inesattezze o variazioni testuali —, ripropone qualche racconto in forma sintetica, menziona e spiega le credenze o alcuni elementi di leggenda, tra cui quanto segue.
• Il racconto di Souvestre e il ritornello [8] della «canzone» cantata dalle lavandaie, che nella Bassa Bretagna sono chiamate «des kannerien noz (chanteuses de nuit)» e lavano il sudario di chi sta per morire o il proprio.
• Uno dei Contes de Bretagne di Paul Féval, nel quale si racconta che, mentre una lavandaia torce il lenzuolo [9] assieme alla propria vittima, le altre danzano e cantano una canzone «en patois breton français», «della quale [Féval] dà una traduzione letteraria e il cui ritornello è “Torci lo straccio! torci / Il sudario / Degli sposi [sic] dei morti”» (“Tords la guenille ! Tors / Le suaire / Des époux des morts” [10]).
• Una leggenda nella quale si narra che verso la fine dell’Ottocento, in località Coëfferie (Coesmes, Ille et Vilaine), una ragazza interpellò una lavandaia sconosciuta che si vedeva dopo mezzanotte al lavatoio pubblico ed era chiamata «la Beduina»; le chiese se desiderasse delle messe o dei ceri di suffragio, al che ricevette sulla faccia un fagotto di biancheria, cadde all’indietro e perse i sensi. «La Beduina scomparve e la ragazza diventò pazza.»
• Un elemento tratto da quanto riferito da Paul Sébillot sulle lavandaie dei ponti presso Bécherel e Tinténiac: le lavandaie notturne «dicono al passante che le guarda o le interroga: “Seguite la vostra strada, io faccio quanto mi è ordinato”» — P.-Y. Sébillot però non cita, qui come altrove, la sua fonte, vale a dire in questo caso gli scritti del padre.
• La «spiegazione ben più naturale» delle tradizioni sulle «lavandaie di notte»: si tratta di donne che non potevano lavare la biancheria di giorno o che non avevano i mezzi per farsela lavare da altre. Se disturbate, avrebbero potuto comportarsi come la Beduina («che, forse, si anneriva il volto per non essere riconosciuta»), o anche richiedere alle persone indiscrete di proseguire per la loro strada, lasciandole compiere la loro “penitenza”.
• La spiegazione data da George Sand riguardo alle lavandaie del Berry: il rumore che si pensa sia fatto dalle lavandaie battendo le mestole, è in realtà prodotto da una specie di rana.
• La possibile diffusione della credenza ad opera di qualche prete allo scopo di contrastare gli infanticidi e il lavoro effettuato di domenica, e «obbligare a seppellire i morti in maniera decorosa».

 
[1] P. Sébillot (1968): 423-31. A fare il bucato sono perlopiù esseri femminili: si tratta di «morte condannate a delle espiazioni», e solo in alcune leggende di donne che «se rattachent au monde de la féerie» [p. 423].
 
[2] P. Sébillot (1968): 339-61.
 
[3] Yann Brekilien [(1994): 242] ricorda che i popolani scoppiano a ridere quando si parla della «biancheria lavata con delle pietre»: probabilmente i raccoglitori di leggende sono stati «vittime dello spirito faceto dei contadini della Cornovaglia o del Trégor», anche perché i poveri, mancando loro i mezzi, non hanno mai dato da lavare la loro biancheria alle lavandaie.
 
[4] «Jusqu’à ce qu’il ne vienne un chrétien sauveur ; – Il nous faut blanchir notre linceul, – Sous la neige et le vent» [P. Sébillot (1968): 427].
 
[5] P. Sébillot (1968): 352-3.
 
[6] P. Sébillot (1968): 352.
 
[7] P.-Y. Sébillot (1998): 181-4.
 
[8] «Ken na zeu Kristen Salver / Red e goelc’hri liçer / Dindan an earc’h ag an aer !», ritornello tradotto così da P.-Y. Sébillot: «Jusqu’à la venue d’un chrétien sauveur, / Il faut laver notre linceul, / Sous la neige et le vent !» («Fino all’arrivo di un cristiano salvatore, / Bisogna lavare il nostro lenzuolo / Sotto la neve e il vento!» [P.-Y. Sébillot (1998): 182].
 
[9] P.-Y. Sébillot [(1998): 183] indica anche la possibilità di far scomparire le lavandaie, che invitano a torcere i lenzuoli, facendo un segno di croce.
 
[10] In P. Sébillot [(1968): 427], come s’è visto, il ritornello era «Tors [sic] la guenille, / Tors / Le suaire des épouses des morts».

lunedì 13 dicembre 2010

Le kannerezed-noz. 4ª parte



Luzel, Cadic

Ne La Lavandière de nuit, racconto registrato da François-Marie Luzel, la protagonista-vittima, Marianna Kerbernès, è una madre di famiglia cui piaceva tanto filare da farlo almeno fino a mezzanotte e spesso fino allo spuntar del giorno, ricavandone una discreta quantità di filo che ogni sabato andava a vendere al mercato di Morlaix.
Una domenica sera, uscita nel cortile attorno alle undici e mezzo per rifornirsi di altra filaccia, incontrò una donna — sconosciuta — che, a suo dire, vista la luce nell’abitazione, aveva pensato di entrarvi per chiedere l’ora. Marianna, evidentemente senza insospettirsi, la fece entrare e rispose alle domande formulate dalla donna per informarsi sulle sue abitudini e sui presenti in casa. Poi la sconosciuta propose di rimanere con lei a filare fino all’alba e Marianna accettò.
Si misero dunque al lavoro e ben presto Marianna si accorse che l’ospite filava «con la rapidità di una macchina a vapore». Guardatala attentamente, solo allora notò che la compagna era molto vecchia e aveva un aspetto singolare che le provocò per un istante un brivido; preferì comunque non dire niente e continuò il suo lavoro.
Terminata velocemente la materia prima, Marianna pensò bene di profittare della situazione: suggerì pertanto di procedere con il lavaggio e il bucato del filo. Si recarono dunque al lavatoio ove effettuarono di gran lena la battitura; successivamente, rientrate dentro casa, accesero un gran fuoco sopra il quale posero un pentolone, e poi uscirono ciascuna con una brocca per riempirla con l’acqua della fontana.
Tutto quel trambusto finì per svegliare il marito, il quale vide la sconosciuta all’opera. La donna perciò si avvicinò al letto [1] e fissò l’uomo con occhi simili a due carboni ardenti, cosicché quegli per la paura cacciò la testa sotto le lenzuola e rimase in silenzio.
L’ospite quindi uscì di nuovo mentre Marianna stava rientrando; allora suo marito, avendo riconosciuto quella donna, saltò fuori dal letto e rivolse alla moglie tali parole:
– Disgraziata! Non vedi dunque che hai fatto entrare in casa una lavandaia della notte, e che questa donna non viene da parte di Dio ma da parte del diavolo! Chiudiamo prima la porta, cosicché non possa rientrare, poi cambiamo di posto o capovolgiamo tutto quello che ha toccato.
Così fecero: gettarono all’altro capo della casa l’arcolaio e la rocca usati dalla lavandaia, rovesciarono la pentola e ne versarono l’acqua sul fuoco.
La donna, trovata la porta chiusa, bussò e gridò un paio di volte a Marianna che le aprisse, ma questa, ammonita dal marito, rimase zitta.
La lavandaia — che il narratore chiama anche «strega»: «reprit la sorcière (car elle était aussi sorcière)» — allora si rivolse alle cose da lei usate in precedenza, ma nessuna poté aprirle: l’arcolaio era stato «rovesciato e gettato in fondo alla casa»; la rocca aveva subito lo stesso trattamento; la pentola era stata «rovesciata e gettata sul pavimento» [2]; l’acqua era stata versata sul fuoco; infine i tizzoni, bagnati dall’acqua, non avevano più che «un avanzo di vita» che andava estinguendosi.
A quel punto la strega, gettato un grido orribile, prima di andarsene disse a Marianna:
– Sei stata fortunata a trovare uno più saggio di te per darti consigli, giacché diversamente, sul far del giorno t’avrebbero trovata cotta nella pentola, assieme a tuo figlio!...
Da quel giorno Marianna Kerbernès «si coricò a un’ora adeguata, come tutti devono fare» [3].

François Thépaut narrò a Luzel un secondo racconto intitolato La lavandière de nuit, che ha invece come protagonista una ragazza, Soezic ar Floc’h.
Questa stava rincasando, una sera d’aprile, attorno alle nove, dopo aver portato del latte alla fattoria del Loguellou (Botsorhel, nel Finistère), quando, un po’ prima di arrivare nei pressi di uno stagno usato come lavatoio, si sentì chiamare un paio di volte ma non scorse nessuno. Affrettò perciò il passo, giunse allo stagno e mentre stava saltando «il ruscelletto che ne defluisce», sentì tre colpi di mestola sulle pietre del lavatoio, tanto violenti da farne risuonare tutta la valle.
Allora Soezic si ricordò dei vari racconti dei compaesani che affermavano aver visto a quello stagno delle lavandaie di notte. Fuori di sé dalla paura, si mise a correre a perdifiato fino a cercar rifugio nella prima casa incontrata lungo il cammino, ma qui «cadde come morta, varcandone la soglia». La ragazza di conseguenza si ammalò gravemente fino a morirne [4].

A questo si può accostare un altro racconto raccolto di Luzel, La lavandière de nuit du douet de Plougonven [5], in cui si narra che tre giovani, tornando a casa attorno alle due o alle tre di una notte di dicembre, dopo aver giocato a carte per più ore, videro una «lavandaia di notte» che lavava della biancheria al lavatoio di Plougonven. Uno di loro le chiese se volesse essere aiutata a torcere, ma la donna non rispose, si alzò e guardò nella direzione da cui era venuta la domanda. I tre, presi dal panico, scapparono via «come se il diavolo fosse alle loro calcagna» e nella folle corsa persero o gettarono zoccoli e cappelli. Raggiunta una chaumière [6] che si trovava lungo la strada, vi si precipitarono dentro, mentre la lavandaia li stava per raggiungere con l’intenzione di ammazzarli con la mestola. Non potendo entrare nella casa, la donna gettò il suo utensile contro la porta che per il violento colpo andò in pezzi; «e prima di andarsene gridò loro:
“Potete ritenervi fortunati, perché se vi avessi presi, vi avrei insegnato a passare la notte giocando a carte e a trovarvi così tardi per strada, senza necessità!”»
I tre giovani aspettarono che fosse pieno giorno per uscire e recuperare i loro zoccoli e cappelli. Questi vennero però ritrovati, spezzati e strappati, «sulla pietra dello stagno ove la lavandaia di notte lavava la sua biancheria, al chiaro di luna».

D’aver visto le «lavandières de minuit», che lavano i propri lenzuoli al chiaro di luna, ricorda inoltre Laouic Mihiac durante una veglia serale al manoir di Keramborgne (la casa natale di Luzel), secondo quanto narrato da Luzel in «Alan Kourio» [7].
Se un incauto viandante aiuta quelle lavandaie a strizzare il loro lenzuolo girando nello stesso senso, esse gli torcono prima le braccia, poi tutto il corpo. È quel che è accaduto «allo sventurato Tanic Kloarec, a Pont-ar-Goazcan, una notte che s’era attardato a bere al borgo di Plouaret».

Il testo intitolato Les Lavandières de Nuit, tratto da Nouveaux Contes et Légendes de Bretagne (1922) di François Cadic, e riportato in J. Berthou (1993): 58, costituisce una testimonianza composita e per più tratti singolare, articolata in tre parti.
Nel primo paragrafo si parla brevemente di lavandaie condannate a battere e a torcere di notte la loro biancheria per aver lavorato, da vive, di domenica, e si nominano un paio di località del Morbihan ove si credeva ce ne fosse una, per lo meno in anni precedenti la pubblicazione del lavoro di Cadic. Di seguito, poi, viene menzionata la presenza a Poul-er-Pont (Trinité-sur-Mer) di «un uomo che lavava», che una sera un marinaio del paese cercò invano di catturare: invano, giacché il “lavandaio” si spostava da una pietra all’altra con una velocità sorprendente (mentre gli alberi si agitavano come per la tempesta, nonostante il bel tempo).
Nella seconda parte, di pochissime righe, si riferisce delle «lavandaie penitenti di Brennilis» che «sembrano accettare abbastanza allegramente il loro castigo», poiché cantano soavemente sulle sponde del fiume Ellez.

Nell’ultima parte (di quattro paragrafi), accanto a una categoria di «fantasmi di notte» considerati maschili dalla gente — dei quali credo Cadic abbia parlato in un paragrafo precedente —, viene posta una specie femminile di fantasmi, le Kannerézed-Noz, che come la famiglia del Hoper e di Iannic-an-od [8], vanno considerati esprits malfaisants o revenants. Si tratta di donne «che, da vive, erano lavandaie malelingue, lavoranti senza coscienza; logoravano fino alla trama “la biancheria dei poveri, sfregandola con delle pietre per risparmiare il sapone” [“le linge des pauvres, en le frottant avec des pierres pour économiser leur savon”]». Qui, come è evidente, Cadic cita Le Men, ma subito dopo si serve di J. Cambry, menzionandone il passo fondamentale sulle kannerezed: «“Elles vous invitent à tordre leur linge, dit Cambry, vous cassent le bras si vous les aidez, vous noient si vous les refusez.”» [9]
Viene raccontata poi la storia di Jeannic C. di Brennilis, che un sabato sera dopo il tramonto, andò al fiume a lavare la biancheria dei figli perché fossero «decentemente vestiti» il giorno dopo, domenica. Sulla pietra accanto alla sua all’improvviso s’inginocchiò «una donna di taglia gigantesca, una Kannérez-Noz, dai denti enormi e d’una magrezza spaventosa».
Mentre Jeannic lavava lenzuola e coperte [couettes ‘letti di piume’; ‘piumini, piumoni’], la «lavandaia della notte» lavava piccole cose, ma — quel che era ancor più singolare — «ogni volta che la Kannérez-Noz torceva un panno nelle sue mani, ne sgorgava un fiotto di sangue. Ben presto il fiume ne era rosso.»
Jeannic, piena di paura, non osava alzarsi, temendo che sarebbe stata strizzata a sua volta. Nel frattempo erano comparse altre due lavandaie, le quali misero la biancheria ad asciugare. «Le loro mani vi lasciavano pure delle tracce di sangue.»
Jeannic, a quel punto, non riuscendo più a resistere, fuggì verso il villaggio: per sua fortuna le lavandaie non la inseguirono, perché «sulle madri di figli numerosi non hanno alcuna facoltà».


[1] Presumo si trattasse di un tipico lit clos bretone, a battenti che si chiudono.

[2] In J. Berthou (1993): 48 [F.-M.Luzel (1995): 170], si legge: «– Je ne puis pas, répondit la marmite ; l’on m’a aussi renversée et jetée sur l’aire de la maison». L’aire è il suolo in terra battuta che costituisce il pavimento della casa di Marianna, come mi è stato precisato da Jean Berthou stesso (in una lettera datata 13.2.1994).

[3] J. Berthou (1993): 47-8; F.-M.Luzel (1995): 167-70.

[4] Il racconto, narrato il 20 febbraio 1890, è riportato alle pp. 175-6 di F.-M.Luzel (1995), con il sottotitolo Soezic, e alle pp. 223-4 di F.-M.Luzel (2007), con il titolo La lavandière de nuit et Soëzic ar Floc’h.

[5] Si trova in F.-M.Luzel, Contes inédits II. Texte établi et présenté par Françoise Morvan, Rennes, Presse Universitaires de Rennes/Terre de Brume, 1995, e in F.-M.Luzel (2007): 215-7.

[6] Piccola casa contadina col tetto di paglia.

[7] In Nouvelles Veillées bretonnes. Texte établi et présenté par Françoise Morvan, Rennes PUR/Terre de Brume, 1995; riproposto in F.-M.Luzel (2007): 225, con il titolo Les lavandiéres de nuit de Pont-ar-Goazcan.

[8] Il Hoper o hopper-noz, ‘urlatore notturno’ (chiamato così per il suo grido ho! ho!, al quale non si deve rispondere), e Iannic-an-od o Yannic-ann-od (‘Giovannino della costa’, un annegato urlante, il quale arriva a rompere il collo a chi è così imprudente da rispondergli tre volte) sono «spiriti malevoli» confusi con revenants [cfr. A. Le Braz (1990): t. I, pp. LIV, 404 sgg., e t. II, pp. 222 sgg., 239; Gw. Le Scouëzec (1986b): 126].

[9] Il passo di Cambry, così come lo riporta J. Berthou [(1993): 9] — come si è visto [→ 2ª parte] —, risulta un po’ più esteso. L’espressione «de mauvaise grâce», omessa da Cadic, è presente però sia nell’edizione del 1835 curata da Souvestre [a p. 20; cfr. http://books.google.it/books?id=Rm32310wpkIC] sia in quella del 1836 [J. Cambry (1993): 40].

domenica 12 dicembre 2010

Le kannerezed-noz. 3ª parte



Souvestre, Le Braz

Ne Les Lavandières de nuit raccolta da Souvestre, si narra che un primo novembre, nel pieno della notte, un certo Wilherm Postik, un «enfant de l’ange noir» [1], dovendo rientrare al suo villaggio dopo tanto tempo trascorso all’osteria, a un crocicchio scelse la via più breve, che — com’era noto — era frequentata dai morti. A mezzanotte, in un vallone, gli si fece incontro la carretta non ferrata della Morte, karr-an-Ankou, di fronte alla quale Wilherm non dimostrò alcuna paura, bensì la sua solita sfrontatezza, anche quando l’Ankou lo ebbe informato che stava andando a prendere proprio lui.
Ripreso il cammino, poco prima del lavatoio, scorse due donne bianche che stendevano della biancheria sui cespugli a lato della strada. Anche con loro si fermò a conversare.
– Come mai siete rimaste fino a così tardi nel prato, mie piccole colombe?
– Noi laviamo, noi asciughiamo, noi cuciamo! risposero le due donne a una voce.
– E che cosa? domandò il giovanotto.
– Il sudario del morto che parla e cammina ancora.
– Un morto! Perbacco! Mi direte il suo nome.
– Wilherm Postik.
Il giovanotto rise più forte di prima e scese per il sentiero sassoso.
Ma via via che avanzava sentiva sempre più distintamente i colpi delle lavandaie notturne sulle pietre della douéz [il ‘lavatoio’] [2]: e ben presto le vide battere i loro lenzuoli funebri cantando il triste ritornello:
Se un cristiano non viene a salvarci
fino al Giudizio dovremo lavare.
Al chiar di luna, al soffiare del vento,
sotto la neve, il sudario bianco. [3]
Quando videro l’allegro gaudente venire verso di loro, accorsero tutte con grandi grida, presentandogli i loro lenzuoli e dicendogli [gridandogli («lui criant»)] di torcerli per farne uscire l’acqua.
[...]
[Wilherm] prese l’estremità del lenzuolo funebre che una delle morte gli presentava, avendo però cura di torcere dalla stessa parte di lei, perché aveva appreso dai suoi vecchi che quello era il solo modo di non restare schiacciato [4].
Mentre il lenzuolo girava così, ecco però altre lavandaie circondare Wilherm, che riconobbe in esse sua zia e sua moglie, sua madre e le sue sorelle. E tutte gridavano:
– Mille sventure a chi lascia i suoi bruciare all’inferno! Mille sventure!
E scuotevano le lunghe chiome, alzando in aria le loro palette [5] bianche, e, in tutte le douéz della valle, lungo tutte le siepi, sopra tutte le lande, innumerevoli [6] voci ripetevano:
– Mille sventure! Mille sventure!
Wilherm, fuori di sé, sentì drizzarsi i capelli sulla testa; nel suo turbamento scordò la precauzione presa fino a quel momento e cominciò a torcere il lenzuolo dall’altro lato. In quello stesso istante il lenzuolo gli serrò le mani come una morsa, e il giovane cadde schiacciato [7] dalle braccia di ferro della lavandaia. [8]
Il suo cadavere venne ritrovato all’alba da una fanciulla di Henvik (Finistère); fu successivamente caricato su un carretto con accanto delle candele benedette che però non rimanevano accese: da ciò si capì che Wilherm era dannato. Pertanto non venne deposto all’interno del cimitero parrocchiale, bensì «dove si fermano i cani e i miscredenti», sotto l’échalier [9], cioè il passaggio, provvisto di gradini, nella cinta in pietra che delimita i complessi parrocchiali bretoni (enclos paroissiaux).

In Celle qui lavait la nuit, leggenda raccolta da Le Braz, la protagonista-vittima del racconto, Fanta Lezoualc’h, da Saint-Trémeur, un sabato sera, rientrata a casa dopo il lavoro bracciantile, decise di andare al fiume a lavare le camicie del marito e dei figli, cosicché fossero asciutte per la messa cantata del mattino.
Al fiume, presa dal suo lavoro, non si accorse dell’arrivo di un’altra lavandaia.
Questa era una donna dalla figura sottile, snella come una cerva, e che portava sul capo un enorme fardello di biancheria così allegramente come si fosse trattato di un fagotto di piuma.
– Fanta Lezoualc’h, disse, tu hai tutto il giorno per te; non dovresti prendere il mio posto, la notte.
Fanta sobbalzò per lo spavento, poi riuscì a balbettare che era pronta a cederle il posto. Allora la donna replicò che aveva solo scherzato e che era anzi disposta ad aiutarla a lavare la biancheria. Fanta acconsentì, e un po’ prima delle dieci la Maouès-noz la convinse a tornarsene a casa, e a cenare tranquilla:
– Non sarete ancora al terzo boccone che vi avrò riportato la biancheria, bianca come si deve.
A casa, Fanta raccontò al marito quanto le era accaduto; l’uomo capì subito chi la moglie avesse incontrato quella sera al fiume:
– Sventurata! Tu hai accettato l’aiuto di una maouès-noz!
L’uomo comunque conosceva il rimedio:
– Finite la cena, [...] poi riponete accuratamente tutti gli utensili che sono sul focolare. Soprattutto appendete il treppiede al suo posto. Spazzerete quindi la casa, in modo che la superficie sia pulita; metterete la scopa in un angolo, a testa in giù. Ciò fatto, lavatevi i piedi, gettate l’acqua sui gradini della soglia, e andate a letto. Ma siate lesta.
La moglie seguì tutte le indicazioni suggerite dal marito; non appena si fu cacciata nel letto, si sentì battere alla porta: era la Maouès-noz. Questa chiese invano per tre volte che le venisse aperto.
Allora si udì all’esterno levarsi un gran vento. Era la collera della Maouès-noz.
– Poiché non c’è cristiano che mi apra, urlò una voce furiosa, treppiede, vieni ad aprirmi!
– Non posso, sono appeso al mio chiodo, rispose il treppiede.
– Vieni allora tu, scopa!
– Non posso, mi hanno messa a testa in giù.
– Vieni allora tu, acqua dei piedi!
– Ahimè! guardami, non sono più che qualche schizzo sui gradini della soglia.
Il grande vento cessò subito. Fanta Lezoualc’h sentì la voce furiosa allontanarsi borbottando:
– La «cattiva moneta»! Può rallegrarsi di aver trovato uno più saggio di lei per istruirla a dovere! [10]
Come si legge in Le Roux - Guyonvarc’h, in questo secondo racconto, a differenza de Les Lavandières de nuit, non vi è riferimento ad alcuna «morale cristiana. Il “paganesimo” della femme de nuit è senza dubbio sottinteso ma non si manifesta molto se non attraverso l’aspetto malefico della creatura soprannaturale.»
Riguardo all’insieme dei documenti folclorici bretoni sulle lavandières de nuit, riportati o presi in considerazione nel loro lavoro, i due Autori possono alla fine trarre alcune fondamentali conclusioni:
Il racconto mitico è perduto irrimediabilmente e la cristianizzazione ha avuto come conseguenze:
– l’anonimato della divinità [la dea celtica della guerra] ridotta al nome della funzione, abbastanza modesta, che le è stata conservata;
– la trasposizione dell’azione in una atmosfera, sia cristiana di castigo e penitenza, sia di timore dei morti tornanti [«des revenants»], essendo comuni nell’interpretazione popolare l’una e l’altra possibilità.
In tutti i folclori celtici, i fatti segnalati in nota da Le Braz concordano. La lavandaia di notte bretone è in effetti una sopravvivenza, dimenticata e attenuata, della dea celtica della guerra. [11]


[1] Un «figlio dell’angelo nero», vale a dire del diavolo [É. Souvestre (2000): 103; Gw. Le Scouëzec (1986): 270 (nota)].

[2] Douéz: ‘fossato’ > ‘lavatoio’.

[3] É. Souvestre [(2000): 107, nota 2] riproduce in nota il ritornello originale:
Nous avons changé peu de chose au breton.
Quen na zaui kristen salver
Rede goëlc’hi hou liçer
Didan an earc’h ag an aër.
C’est-à-dire :
Jusqu’à ce qu’il ne vienne chrétien sauveur
Il nous faut blanchir notre linceul
Sous la neige et le vent.
[4] Nel testo di Souvestre: brisé (‘spezzato, rotto’) [É. Souvestre (2000): 108].

[5] Nel testo di Souvestre: battoirs (battoir o palette = ‘mestola da lavandaia’) [É. Souvestre (2000): 108].

[6] Nel testo di Souvestre: des (‘delle’) [É. Souvestre (2000): 108].

[7] Nel testo di Souvestre: broyé (‘stritolato’) [É. Souvestre (2000): 108]. Broyé è il termine usato anche in A. Le Braz (1990): t. II, p. 205, a proposito della fine che avrebbe fatto un giorno un tale, sarto, qualora non fosse riuscito a «se garantir des maléfices» di un revenant.

[8] Gw. Le Scouëzec (1986): 37-8; É. Souvestre (2000): 107-8.
Ho sostituito in genere i segni d’interpunzione stampati in Gw. Le Scouëzec (1986), con quelli riprodotti nella riedizione del 2000 de Le Foyer Breton [É. Souvestre (2000): 102-9].

[9] In Gw. Le Scouëzec (1986): 38, la traduttrice rende échalier con «soglia», il che mi pare, francamente, riduttivo. In Gw. Le Scouëzec (1989): 20-1, l’A. ritiene che le lastre verticali non servissero ad impedire agli animali di entrare nel cimitero (le bestie domestiche — innanzi tutto i cani — un tempo circolavano più o meno liberamente all’interno dell’enclos), bensì a delimitare l’area sacra senza alcuna interruzione della cinta.

[10] F. Le Roux, Ch.-J. Guyonvarc'h (1983): 84-6; A. Le Braz (1990): t. II, pp. 234-9.
Sulla collera e il vento sollevato da anime di dannati: A. Le Braz (1990): t. II, pp. 205-6.

[11] F. Le Roux, Ch.-J. Guyonvarc'h (1983): 87.
Le note 1 e 2, apposte alla storia di Fanta Lezoualc’h [A. Le Braz (1990): t. II, pp. 238-9], dovrebbero essere di G. Dottin, non di Le Braz. Vi si accenna a credenze-racconti, rispettivamente, di «revenants» irlandesi, fate irlandesi e scozzesi, e di «lavandaie» delle Ebridi e banshees.
In J. Berthou (1993): 11-2, si osserva che le «versioni molto simili» della leggenda riferite da Luzel e Le Braz sono «due versioni spogliate di ogni carattere religioso in cui si manifesta il potere magico delle Lavandaie». Si può tuttavia individuare un accenno a credenze cristiane in una frase pronunciata dal marito della protagonista-vittima del racconto di Luzel [→ 4ª parte]: «cette femme [una lavandière de nuit] ne vient pas de la part de Dieu mais de la part du diable!» [J. Berthou (1993): 47].

sabato 11 dicembre 2010

Le kannerezed-noz. 2ª parte



Cambry, Le Men

Ne Les Lavandières de nuit (Souvestre e Le Scouëzec [1929-2008]) il nome bretone delle «lavandaie della notte» è, al singolare, kannérez-noz [1], vale a dire ‘blanchisseuse de nuit’ (‘lavandaia di notte’). È il composto attestato già nel 1779, ne Le Voyage dans le Finistère di Jacques Cambry [2].
Negli altri due documenti folclorici presi in considerazione da Le Roux - Guyonvarc'h le «lavandaie della notte» sono chiamate:
couerezou, cowerezou ‘lavandaia’ (Le Men);
maouès-noz (maouez-noz) ‘donna di notte’ (Le Braz).
Kannerez (pl. kannerezed) deriva da kann [kɑ͂n] ‘bianco’ (a. br. cann ‘brillante, bianco’ < celt. *kando-) + -er- (suff. d’agente) + -es (suff. del femminile); le forme kouez(i)er, femm. kouez(i)erez (e kouerez), koveour, kovezer, kovezour dipendono da kouez, kovez ‘liscivia, bucato’ (< a. fr. cowet ‘tinozza’); maouez ‘donna, sposa’ e ‘fata’ (medio br. maoues, moues ‘giovane donna’), va confrontato con il corn. mowes ‘serva’ (*magu̯issā), maw ‘servitore’, il br. maw, mao ‘vigoroso’ (< ‘jeune garçon’; a. br. mauu ‘giovanile, gaio’; ‘giovane uomo, servitore’) e il gall. magus ‘bambino, servente, garzone’ [3].

Jacques Cambry accenna brevemente alle kannerezed-noz, al loro comportamento, in una delle pagine dedicate al distretto di Morlaix, nella quale si legge, nell’edizione del 1835 curata da Souvestre (a p. 20) [4]:
«Les laveuses, ar Cannerez-noz (les chanteuses des nuit), qui vous invitent à tordre leurs linges, qui vous cassent les bras si vous les aidez de mauvaise grâce, qui vous noyent si vous les refusez, vous portent à la charité, etc. etc.»;
e nell’edizione del 1836, curata da M. le Chevalier de Fréminville [5]:
«Les laveuses ar cannerez nos, (les chanteuses des nuits) qui vous invitent à tordre leurs linges, qui vous cassent le bras si vous les aidez de mauvaise grâce, qui vous noyent si vous les refusez, vous portent à la charité ; etc. etc.» [6].

Alla forma cannerez, femminile (usato anche come plurale) di canner, attestato già nel medio bretone del Catholicon (1499) [7], Cambry ha attribuito il significato di ‘chanteuse’, confondendola forse con la voce canerez, femminile di caner, br. attuale kaner ‘chanteur’. Caner, con una sola n appunto, è già documentato nel medio bretone (1632) e continua l’a. e medio br. can ‘canto’ (nel Catholicon), br. attuale kan [kɑ̃ːn] — con vocale radicale lunga —, voci risalenti a un tema celt. *cano- [8].
Va osservato che Souvestre non pare essersi accorto di questo eventuale scambio di parole, poiché nulla dice in proposito in nota. E Paul Sébillot poi, come si vedrà [→ 5ª parte], traduce sempre kannerez-noz con «chanteuses de nuit».
Fermo restando che un’oscillazione -n-/-nn- è sempre possibile nella grafia dei secoli scorsi, qui però una n geminata (-nn- esito di -nd- di *kand-) denota un diverso valore semantico, cosa di cui, sulla base delle attestazioni in antico e medio bretone, pare che i Bretoni fossero consapevoli anche in passato. Inoltre nella descrizione delle kannerezed-noz inserita da Cambry nel suo Voyage, non vi è nulla che faccia pensare a delle «cantanti» o «canterine notturne», forse anche (non solo) perché l’autore ha voluto limitarla a quattro elementi, per non dilungarsi troppo su quel particolare «rêve de l’imagination» bretone — il capoverso vien chiuso infatti con un «etc. etc.».

Per Le Men, si tratta di «lavandaie che, durante la loro vita, hanno, per negligenza o avarizia, rovinato la biancheria o gli abiti di poveri che avevano appena di che vestirsi, sfregando quegli indumenti con delle pietre per risparmiare il sapone. Per punizione di questa colpa, Dio le rinvia dopo la morte sulla terra, dove impone loro per penitenza di lavare continuamente della biancheria durante le ore dispari della notte, nei fiumi e nei lavatoi nei quali lavoravano abitualmente in vita, e di trasportarvi nel loro grembiule delle pietre prese nei luoghi in cui le prendevano un tempo. Per vendicarsi di questo lavoro forzato, esse chiamano di sera i viandanti, o gli vanno loro stesse incontro e porgono l’estremità di un lenzuolo bagnato, di cui tengono l’altro capo, ordinando di aiutarle a strizzare il telo. Se essi sono così poco accorti da strizzare veramente questo telo torcendolo, le lavandaie finiscono per romper loro le braccia. Per scampare a questo supplizio, basta girare il lenzuolo nello stesso senso della lavandaia. Questa finisce per stancarsi, vedendo che il suo lavoro non procede, e lascia andare la sua vittima. Questa leggenda è molto diffusa in Bretagna, dove il timore delle lavandaie notturne è fra i più forti. Si eviti perciò con cura di sera la vicinanza dei luoghi in cui abitualmente viene lavata la biancheria. È ben sufficiente sentire da lontano il rumore spaventoso delle mestole.»
Come Le Men soggiunge in una nota, alla base di questa leggenda vi è la convinzione, altrettanto diffusa ai suoi tempi, dell’obbligo di una «riparazione, da compiersi sulla terra dopo la morte, degli errori commessi durante la vita» [9].

 
[1] Kannerez-noz (pl. kannerezed-noz) nelle grafie «unificata» (1941) e «universitaria» (1953), kanneres-nos (pl. kanneresed-nos) nella grafia «interdialettale» [cfr. F. Favereau (1997): VI-VII].
 
[2] É. Souvestre (2000): 102 (nota); Gw. Le Scouëzec (1986): 269 (nota); J. Berthou (1993): 9.
Per J. Berthou kannerez-noz «è il termine più antico e più spesso utilizzato», sovente però con la forma del singolare usata anche per il plurale (correttamente: kannerezed-noz), a partire dallo stesso Cambry.
Alcune nozioni di sintassi: il bretone, nei composti sostantivo + sostantivo, presenta l’ordine determinato-determinante (corrispondente in genere al Basic Order VSO [Verbo-Soggetto-Oggetto]), come in kannerez-noz e tour-tan ‘faro’ (letteralmente: ‘torre-di-fuoco’). Ciò a differenza dell’antico bretone, in cui di norma il determinante precedeva il determinato: mor-bran ‘cormorano’ (mor ‘mare’ + bran ‘corvo’). [L. Fleuriot (1989): 365-6.]

[3] F. Le Roux, Ch.-J. Guyonvarc'h (1983): 87:
couerezou, cowerezou chez Le Men, notation archaisante pour kouerez ‘lavandière’ (de kouez ‘lessive’);
kannerez ‘blanchisseuse’ chez Souvestre;
maouès-noz (maouez-noz) ‘femme de nuit’ chez Le Braz.
Utili informazioni lessicali anche in J. Berthou (1993): 9; ed etimologiche in A. Deshayes (2003), s. vv. kann, kovez, maw, Léon Fleuriot (1985), s. vv. cann, mauu, e X. Delamarre (2008), s. v. magus.


[5] J. Cambry (1993): 40.

[6] Il passo riportato da J. Berthou [(1993): 9] presenta qualche lieve differenza: «les Laveuses, ar Cannerez-noz (sic), qui vous invitent à tordre leur linge, qui vous cassent le bras si vous les aidez de mauvaise grâce, qui vous noient si vous le refusez, vous portent à la charité». «Charité» può valere ‘altruismo’, ‘amor del prossimo’ (o simile), e anche «donnez et on vous donnera» (significato suggeritomi da J. Berthou in una sua lettera del 13.2.1994).

[7] Dizionario mediobretone-francese-latino (specie di manuale di latino per i chierici bretoni) di Jehan Lagadeuc, della seconda metà del XV sec. (manoscritto del 1464; prima edizione a stampa, ad opera di Jehan Calvez, del 1499).

[8] A. Deshayes (2003), s. v. kan; Léon Fleuriot (1985), s. v. can ; F. Favereau (1997): 370-1.

[9] F. Le Roux, Ch.-J. Guyonvarc'h (1983): 79.
La stessa sorte di revenants (‘tornanti’, vale a dire ‘morti tornanti’) è riservata a chi deve ritornare sulla terra per filare il lino rubato, per mangiare tanta cenere quant’è stato il pane perso o sprecato, per tentare invano di accendere il fuoco sul focolare su cui da ragazza di fattoria ha lasciato cadere la pastella delle crêpes, per portare sacchi pieni di pietre se da mugnaio ha perso del grano affidatogli. Invece la donna sposata che ha ostacolato l’aumento della sua prole, ritorna sulla terra come scrofa seguita da tanti maialini quanti figli avrebbe potuto avere [pp. 79-80].