Gallico *iuos "Taxus baccata"


«Il tasso (ivin in bretone) è l'albero dell'immortalità perché sempreverde e di una longevità straordinaria. I cimiteri bretoni senza tassi non sono veri cimiteri. Ha anche la fama di essere il più antico degli alberi. La mazza del dio druido Daghda era di tasso così come la sua ruota. Si scrivevano incantesimi in ogham su legno di tasso. Quest'albero ha anche un simbolismo militare: si facevano scudi e aste di lancia con il suo legno.»

Tratto da: Divi Kervella, Emblèmes et symboles des Bretons et des Celtes, Coop Breizh, Spézet 1998, p. 17.



Il “tasso sanguinante” di Nevern 

<br><br>Il “tasso sanguinante” di Nevern <br><br>


Il “tasso sanguinante” (stillante linfa rossa) del cimitero della chiesa di Saint Brynach a Nevern, Pembrokeshire (Galles).







venerdì 7 ottobre 2011

Sulle gravi offese e accuse attestate in alcune «Leggi delle nazioni germaniche»



Per i Longobardi del VII secolo gli insulti più pesanti rivolti alle donne erano quelli di «striga» e «fornecaria», di cui trattano i capitoli 197, 198 e 376 dell’Edictum Rothari. Il 197 e il 376 inoltre, ci attestano la voce masca, usata nelle formule esplicative «strigam, quod est mascam» e «strigam, quem dicunt mascam», nelle quali si individua un’«alternativa» striga/masca plausibilmente interna al “latino”, come Piergiuseppe Scardigli ha evidenziato[1], con masca da ritenersi un probabile imprestito dal latino parlato al longobardo.
Poniamo pertanto a confronto quei tre capitoli.
197. De crimen nefandum. Si quis mundium de puella libera aut muliere habens eamque strigam, quod est mascam, clamaverit, excepto pater aut frater, ammittat mundium ipsius [...].

198. De crimen in puella iniectum qui in alterius mundium est. Si quis puellam aut mulierem liberam qui in alterius mundium est, fornecariam aut strigam [«histrigam», in C. Azzara, S. Gasparri 1992: 56] clamaverit, et pulsatus penitens manefestaverit per furorem dixissit, tunc praeveat sacramentum cum duodecim sacramentalis suos, quod per furerem ipso nefando crimen dixissit, nam non de certa causa cognovissit. Tunc pro ipso vanum improperii sermonem, quod non convenerat loqui, componat solidos vigenti, et amplius non calumnietur. Nam si perseveraverit et dixerit se posse probare, tunc per camphionem causa ipsa, id est per pugnam ad Dei iudicium decernatur. Et si provatum fuerit, illa sit culpabilis, sicut in hoc edictum legitur. Et si ille qui crimen misit, provare non potuerit, wergild ipsius mulieris secundum nationem suam componere conpellatur.

376. Nullus praesumat haldiam alienam aut ancillam quasi strigam, quem dicunt mascam, occidere; quod christianis mentibus nullatenus credendum est, nec possibilem ut mulier hominem vivum intrinsecus possit comedere. Si quis de cetero talem inlecitam et nefandam rem penetrare presumpserit, si haldiam occiderit, componat pro statum eius solidos 60, et insuper addat pro culpa solides centum, medietatem regi et medietatem cuius haldia fuerit.[2]
Nei primi due, il crimen, «nefandum», consiste in un esecrabile insulto nei confronti di una fanciulla o donna libera ­— grave all’incirca quanto l’arga (‘vile’, o piuttosto ‘invertito, effeminato’) rivolto a un uomo, di cui si dirà più avanti — da parte di chi ne detiene il mundius o di una “terza” persona. Offesa che consiste nel dare, nel primo caso, della «striga», anzi della «masca», nel secondo, della «fornecaria» (= ‘prostituta’, in senso lato) o della «striga»[3].
Il capitolo 376, che — secondo G. Barni, L. Capo e C. Azzara (ma non P. Delogu) — va considerato tra le aggiunte e integrazioni (capp. 367-388)[4], si occupa dell’omicidio di un’aldia o un’ancella altrui ritenuta, a torto, una «masca». A torto, perché non è possibile che una donna mangi un uomo vivo «all’interno», cioè ne mangi le viscere, o forse solo il cuore (oppure «dall’interno», come intendono alcuni, ma senza spiegare tale espressione[5]).
Mentre nel capitolo 197 nulla è indicato dell’attività delle «mascae», qui vien detto che si nutrono, in qualche modo, di carne umana; sembra quasi di sentire nel cap. 376 — se è vero che è stato aggiunto in seguito — l’eco di dolorose vicende accadute di recente, che hanno richiesto un “aggiornamento”, giacché ora non si tratta più soltanto di gravi calunnie nei confronti di donne libere — calunnie non so quanto punite se rivolte a semilibere e serve[6] —, bensi di uccisioni di aldie o ancelle presunte «mascae» divoratrici di carne umana. Uccisioni solo di aldie e ancelle; le donne di condizione libera avranno forse subito da qualcuno soltanto nefande ingiurie[7].
Poiché nel cap. 193 si pone l’eventualità che la donna o fanciulla così insultata possa essere riconosciuta «culpabilis» (tramite il duello), si potrebbe concludere che una donna libera, per i Longobardi, avrebbe potuto disonorare se stessa e la propria famiglia come «striga» o prostituta/fornicaria (ma erano probabilmente le violenze subite a costringere alla prostituzione)[8].

Di «fornicazione volontaria» da parte di fanciulle o donne libere, tratta poi il cap. 189[9]: è questo in effetti il capitolo cui rinvia il passo «sicut in hoc edictum legitur» del cap. 198. Rimane pertanto privo di riscontro il caso di colpevolezza della donna libera accusata di essere una «striga»; oppure, essendo tale colpa assimilabile a quella di «fornecaria», innanzi tutto forse perché associata alla «sfera sessuale»[10] (cfr. infra quanto riportato di simile dalle norme di altre genti germaniche), il cap. 189 dovrebbe valere per entrambe le forme di colpevolezza (in primo luogo nello stabilire: «potestatem habeant parentes in eam dare vindictam»).

In realtà il termine masca è presente solo nei capp. 197 e 376: nel primo, non si parla di un’accusa che possa essere dimostrata: forse tutti sanno — o meglio, dovrebbero sapere — che una «mulier» (libera, aldia o ancella che sia) non può essere una «masca», come poi è stato rammentato o precisato dal cap. 376?
Si potrebbe ipotizzare pertanto che l’Editto attesti l’esistenza di credenze relative a due tipi di «strigae»: le prime (cap. 198) sono dedite a pratiche malefiche in genere, sulle quali però nulla vien detto; le seconde son chiamate «mascae» (capp. 197 e 376). L’alternativa striga/masca, interna al latino, allora non risulterebbe veramente di tipo sinonimico.
Tale ipotesi tuttavia contrasta, se non altro, con la natura sinonimica fin qui attribuita un po’ da tutti a formule quali «strigam, quod est mascam» e «strigam, quem dicunt mascam», e con una certa ambivalenza semantica riconoscibile nel termine striga usato nelle altre legislazioni germaniche altomedievali[11].

Dell’insulto di arga, rivolto a un uomo, tratta il capitolo 381 dell’Editto: «Si quis alium “arga” per furorem clamaverit et negare non potuerit et dixerit, qod per furorem dixisset, tunc iuratus dicat, quod eum arga non cognovisset; postea conponat pro ipso iniurioso verbo solidos duodecim. Et si perseveraverit, convincat per pugnam, si potuerit, aut certe conponat, ut supra.»[12]
Claudio Azzara e Lidia Capo, traduttori rispettivamente dell’Editto di Rotari e della Storia dei Longobardi, danno al longobardo arga i significati di ‘vile, vigliacco’ e ‘vile, sciocco’[13]. Elio Bartolini (in Paolo Diacono 1988: 279) sembra propendere per ‘vile’; Paolo Delogu (1980: 63) preferisce “inetto”. Azzara inoltre, spiega così la sua scelta: «è ben comprensibile come l’accusa di vigliaccheria venga percepita come la più infamante che si passa rivolgere ad un uomo libero da una cultura a fondamentale connotazione militare quale è quella longobarda».
Nell’episodio narrato da Paolo Diacono nel Libro VI, Cap. 24, della sua Storia, il duca del Friuli Ferdulfo «apostrofa» con tali parole lo sculdahis Argait che non era riuscito a raggiungere alcuni slavi ladri di pecore: «Quando tu aliquid fortiter facere poteras, qui Argait ab arga nomen deductum habes?»; parole che Lidia capo traduce, un po’ liberamente, con: «E quando mai potevi fare qualcosa di buono tu, che sei Arga di nome e di fatto?» (Bartolini invece preferisce rendere fortiter con «valorosamente»). Nel seguito del racconto, però, Argait, che era in effetti «vir fortis» («uomo valoroso», nella versione della Capo), ha modo di dimostrare veramente tutto il suo valore, un valore però inutile, anzi pernicioso, perché decidendo di attaccare un esercito di Slavi, accampato «in summo montis vertice», per la via più diretta, dura ed esposta, trascina con sé verso una morte sicura Ferdulfo e l’intera nobiltà del Friuli, che per puntiglio non vogliono apparire meno valorosi di Argait.
Ebbene, è necessario ricordare che Paolo Diacono compose l’Historia Langobardorum alla fine dell’VIII secolo (all’incirca fra il 788 e il 796[14]), mentre le vicende narrate in H. L., VI, 24 riguardano i primi anni del secolo. Al contrario, l’Editto di Rotari è del 643, fermo restando che, se il cap. 381 va considerato tra quelli aggiunti successivamente (capp. 367-388), potrebbe essere sì posteriore, ma non tanto da documentare una concezione ideologica, una mentalità ancor più cristianizzate, dei valori fondamentali, dei concetti socio-culturali comuni diversi da quelli che caratterizzano l’insieme dei capitoli 1-366 (la qual cosa tutto sommato vale anche per il cap. 376).
Se dunque dalla promulgazione dell’Editto alla composizione della Storia è trascorso circa un secolo e mezzo, ma solo una sessantina d’anni separa la morte di Argait dall’Editto e un po’ meno di un secolo la composizione della Storia dalla morte di Argait, perché non pensare che Paolo Diacono sentisse nell’epiteto di arga un insulto ormai diversamente recepito rispetto ai tempi di Rotari, e forse a quelli di Argait stesso? La sua potrebbe essere la testimonianza di come quel termine, usato dopo il 643 per almeno una sessantina d’anni e conservatosi — grazie all’Editto stesso —, e forse usato, per altri novant’anni circa, con l’evolversi della situazione culturale e sociale, con l’integrazione, anche sul piano religioso, si sia “banalizzato”, abbia cioè perso la sua denotazione originaria e mantenuto una sua connotazione più “ovvia”, più accettabile, che ipotizzo debba essere proprio quel ‘vile’ che Azzara e Capo (come pure Scardigli[15]) attribuiscono all’arga dello stesso Editto di Rotari.
Ma che avrà potuto significare questo termine longobardo originariamente? E attorno al 643? E perché nel cap. 381 non viene glossato con una voce latina?

Michel Rouche, occupandosi degli insulti infamanti puniti dal Pactus Legis Salicae, cap. XXX: De convitiis (convitium = ‘oltraggio, ingiuria’), capitolo presente nella prima redazione (anni 507-511) — di poco dunque posteriore alla conversione di Clodoveo —, li novera tutti e otto: dal più disonorante, vale a dire quello di «prostituta» (cui corrispondevano 45 soldi di ammenda), a quello di «pederasta» (15 soldi) e alle altre ingiurie, tutte e sei da Rouche ritenute meno gravi alla stessa stregua (tre soldi): concagatus (reso con «fruga-merda»), «volpone», «traditore», «spione», «lepre» e l’accusa di aver gettato via lo scudo ed esser fuggiti dal campo di battaglia[16].
Le parole oltraggiose usate nei sette paragrafi in cui è diviso il capitolo XXX del Pactus sono dunque rivolte tutte a uomini tranne in un caso; le riporto qui sotto nell’ordine e nella forma morfosintattica con cui compaiono nel testo edito da Karl August Eckhardt[17], assieme alle definizioni lessicali dell’editore (termini tedeschi), alle glosse malbergiche (da «mallobergo = gerichtlich», ‘in giudizio, legalmente’: «mallobergus = Gerichtsstätte», ‘sede di tribunale’[18]) inserite nel testo stesso nella lingua dei Franchi — le prime tre in tempi successivi: risalgono agli anni 511-533 e 567-593 —, a mie interpretazioni e notazioni.

A) [par. 1] «cinitum»: «cinitus = Buhlknabe» [‘ragazzo amante, prostituto’; cinitus pare deformazione del lat. cinaedus (> italiano cinedo)][19];
«mallobergo quintuc sunt»; quintuc = «Hundsfott» [espressione tedesca volgare, dal significato di ‘potta di cagna (in calore)’][20]; nel manoscritto K 79 si legge la glossa: «id est arga».
B) [par. 2] «concagatum»: «concagatus = Scheißkerl» [‘merdoso, cacone, vigliacco’][21].
C) [par. 3] «meretricem»: «Si quis mulierem ingenuam, seu uir seu mulier, alteram meretricem clamauerit et áeiñ non potuerit adprobare, [mallobergo strabo], MDCCC denarios qui faciunt solidos XLV culpabilis iudicetur».
In questo paragrafo si specificano dunque tre condizioni, delle quali due necessarie: 1) l’accusata è una donna libera («ingenua»); 2) se l’accusatore non può provare la sua accusa, si ha una «calunnia» («mallobergo strabo»: strabo = «Verleumdung», ‘calunnia’[22]), che richiede la composizione di 45 soldi; 3) la terza è un’alternativa: ad accusare può essere anche un’altra donna («seu vir seu mulier»).
D) [par. 4] «uulpem».
E) [par. 5] «leporem».
F) [par. 6] «quod scutum suum iactasset, [et fuga lapsus fuisset]».
Anche qui è indicata la condizione necessaria dell’impossibilità di provare l’accusa, cioè la sua realtà calunniosa, di «mallobergo austrapo»: austrapo = lose strabo = «lügnerische Verleumdung», ‘calunnia menzognera’[23]; inoltre si specifica che l’accusatore è un «uomo libero» («Si quis homo ingenuus alteri inputauerit, quod [...]»).
G) [par. 7] «delatorem aut falsatorem»: «delator = Denunziant», ‘delatore’; «falsator = Fälscher», ‘falsificatore’;
falsator è piuttosto ‘colui che falsifica’ la realtà usando la parola: il “mentitore”, il “falso testimone” (e presumibilmnte lo “spergiuro”[24]);
«mallobergo leodardi sunt»: leodardi = «Mannbuße», ‘indennizzo personale’.
Anche per questi insulti è indicata la condizione necessaria di cui ai parr. 3 e 6, ma l’ammenda prevista è di 15 soldi, non tre (e nella bibliografia che correda il saggio di Rouche è segnata proprio l’edizione del Pactus a cura di Eckhardt).

Anche l’epiteto «pederasta», forse dovuto al traduttore (Gabriella Vèrnole), a mio avviso non è esatto, perché se mantiene l’ingiuria nell’ambito sessuale, purtroppo non rende il senso tradizionale del termine germanico cui credo si riferissero gli estensori del Pactus Legis Salicae. Tale voce è arga, o meglio, il corrispettivo dell’arga longobardo, che presumibilmenie aveva la stessa forma[25].
Julius Pokorny cita come voce a.a.t. ar(a)g, attribuendole i significati di ‘vigliacco, indolente, infame, cattivo’. Assieme al gr. orkhéō, -éomai (‘metto in moto; danzo’), all’ags. earg, all’a. isl. arg [norr. argr], ragr ‘effeminato, voluttuoso, cattivo’, e poche altre, la considera derivata dalla radice ie. *ergh-, ‘scuotere, agitare, tremare’, oppure *er- con ampliamento, ‘mettere in movimento’[26]. Più suggestivo però — perché si rimane nell’ambito sessuale — mi pare l’accostamento con il greco orkhis ‘testicolo’, avestico ərəzi ‘scroto’, a. scandinavo ögurr («per *örgurr») ‘pene’, riproposto in G. Dumézil 1986: 218, nota 2. Una simile associazione ritiene possibile anche Jan de Vries: l’ögurr del composto ögurstund, significante forse ‘ora di voluttà’ (in Völundarkviða 41), potrebbe valere ‘membrum virile’ e derivare da una forma *örgur confrontabile col gr. órkhis e con argr [27]. Pokorny invece riconduce órkhis e ərəzi- a un ie. orĝhi-, r̥ĝhi- ‘testicolo’ e non prende in considerazione ögurr[28].
Il significato originario di arga doveva essere vicino a quello di ‘omosessuale passivo’, contrapposto alI’‘attivo’, che, sia pure con qualche dubbio, possiamo riconoscere nel latino popolare concagatus (rispettivamente: 15 e tre soldi di ammenda)[29].

È da notare che quella specie di gerarchia delle colpe che si forma, o meglio ci formiamo, sulla base delle diverse entità delle ammende, non è evidenziata dai compilatori del Pactus nell’elencazione delle ingiurie, poiché la più pesante quanto ad ammenda compare nel terzo paragrafo, e si trovan nell’ultimo delle ingiurie indennizzabili con 15 soldi: la disposizione, dunque, lascerebbe intravvedere una bipartizione “ambito sessuale” – “ambito del coraggio e della lealtà’ (parr. 1-3 – parr. 4-7), nella quale solo il primo[30] riguarderebbe anche le donne, giacché si tratta della sfera sessuale, mentre coraggio (non solo in battaglia) e lealtà erano virtù prettamente maschili, ovvero erano richieste agli uomini nei rapporti sociali.
Si può ancora rilevare che, in base alle ammende, fossero ritenute più gravi le accuse di delazione/falsità rispetto a quelle di codardia — cfr. il cap. 33 del Pactus Alamannorum, che punisce una donna che abbia chiamato subdulo un uomo: in quella legge è l’unico caso, credo, di ingiuria da donna a uomo[31]. Manca invece nel cap. XXX del Pactus Legis Salicae, per le donne, quell’insulto di «striga» che ci si aspetterebbe in un capitolo dedicato ai convitia, ma che compare invece nel par. 2 del capitolo LXIV, De herburgium («Sul servitore di streghe»[32]):
Si quis <vero> mulierem <ingenuam> striam clamauerit aut meretricem et non potuerit adprobare, mallobergo faras [= «Fahrende», ‘(donne) che viaggiano’, ‘vagabonde’, riferito appunto a striae/meretrices[33]], <MMD> denarios qui faciunt <in triplum> solidos (C)LXXXVII et semis culpabilis iudicetur.
Salta qui agli occhi come l’ammenda per l’accusa di meretricio sia stata all’incirca quadruplicata rispetto a quella del par. XXX, la qual cosa potrebbe spiegarsi solo ipotizzando che il cap. LXIV o il solo par. 2, o soltanto le parole «aut meretricem», siano un’aggiunta, un’integrazione successiva: in effetti il titolo De herburgium è attinente al solo par. 1. e i tratti «aut meretricem» e «mallobergo faras» risalgono alla redazione degli anni 567-93 (regno di Gontrano o Childeberto II).
Su varie particolarità del capitolo XXX stesso, comunque, non mi pare si riesca a trovare sempre qualche spiegazione certa (ma forse è sbagliato ricercare sistematicità e coerenza in una Lex di un popolo germanico agli inizi del VI secolo). Innanzi tutto, perché non vien posta nel par. 1 (e nel par. 2) la possibilità di provare l’accusa di omosessualità rivolta ad un altro, come se presso i Franchi Salii, agli inizi del VI secolo, verso chi era omosessuale 1) non si potesse formulare l’accusa di omosessualità, ché non aveva senso sul piano giuridico, 2) non si dovesse rivolgere l’insulto di «cinitus» (e di «concagatus»), ingiuria che, comunque, era punita? La società franca dunque, non ancora cristianizzata, riteneva infamante l’omosessualità passiva (e quella attiva) ma non la puniva?

La prima testimonianza riguardante l’omosessualità passiva presso i Germani la si ritrova in Tacito, in Germania, XII: «Distinctio poenarum ex delicto: proditores et transfugas arboribus suspendunt, ignavos et inbelles et corpore infames caeno ac palude, iniecta insuper crate, mergunt» («La differenza delle pene dipende dal reato. l traditori e i disertori vanno impiccati a un albero, i vigliacchi, gli imbelli e gli invertiti tuffati nel fango d’una palude con una stuoia in testa»[34]).
Come ha ben rilevato Bernard Sergent, gli antichi Germani erano bisessuali (così pure gli antichi Greci, i Romani e altri popoli indeuropei dell’Antichità), cioè ammettevano la pederastia, la relazione tra un adulto e un adolescente (come in Grecia tra erastès e eròmenos), e disprezzavano gli adulti omosessuali passivi: ce lo fanno capire Tacito, che usa l’espressione «corpore infames», e Ammiano Marcellino, in Rerum Gestarum, XXXI, 9, 5, riferendo dei costumi dei goti Taifali[35].
Ma è soprattutto nelle saghe islandesi e nei Carmi Eddici che si rintracciano vari riferimenti all’omossessualità, indispensabili per delineare un quadro più chiaro e completo sulle concezioni e le consuetudini delle genti germaniche e degli stessi Longobardi.
All’arga longobardo corrispondono in antico nordico gli aggettivi argr, ragr ‘effeminato, (uomo) sessualmente passivo’ e i sostantivi ergi, regi ‘omosessualità passiva’ — il verbo at serða designava quella attiva. Lo stesso seiðr, insegnato da Freyja, sorella di Freyr, ai Vani — dei tacciati appunto di «perversità sessuale» e il cui culto era caratterizzato da «trasgressioni sessuali» — e praticato da Odino (Óðinn), era un tipo di magia «che s’associava ad una condizione cosi effeminata, che gli uomini non potevano dedicarvisi senza perdervi tutto l’onore, e che, per questa ragione, era insegnato alle sacerdotesse».
Anche nell’antica società scandinava la peggiore ingiuria consisteva nel chiamare un uomo «effeminato», ragr, ingiuria che veniva punita dalle leggi islandesi, svedesi, norvegesi. Ma Régis Boyer[36] ­afferma che «il termine più insultante» conosciuto dall’antico scandinavo era quello di «lupo» (vargr), riferito a chi veniva condannato alla proscrizione, cioè veniva escluso dalla collettività, con l’imposizione di mutare quasi la propria condizione umana in quella ferina di lupo[37].
«La saga di Harald Hȧrdrȧdes» [Haraldr Harðráði[38]] (re norvegese dell’XI secolo) ci documenta l’esistenza della prostituzione omosessuale, mentre in un’altra si parla di «imposta per argr», argaskattr. Le saghe e l’Edda poetica, inoltre, ci testimoniano l’abitudine di rispondere a quell’oltraggio con una «contro-calunnia simmetrica». Nella Lokasenna Odino e Loki si rinfacciano a vicenda, rispettivamente, la metamorfosi (di Loki) in donna [«là, tu hai partorito dei figli»] e la «femminilizzazione» (di Odino) nella pratica del seiðr [«e tu battesti sul vétt come le streghe; / sotto la forma di una strega andasti tra i popoli»][39].
Degno di nota il fatto che, nel periodo della cristianizzazione, venisse mossa ai cristiani l’accusa di comportarsi come donna — ergi, appunto — dai pagani che, presumibilmente, nel «perdono» e nell’«umiltà» affermati innanzi tutto dai missionari, riconoscevano valori antitetici a quei principi quali la «vendetta» e l’«affermazione del proprio diritto», che regolavano le società scandinave nel X secolo[40].

Se quanto detto finora consente di affermare con una certa sicurezza che il cinitus del Pactus Legis Salicae corrisponde a quel tipo di insulto maschile, appartenente alla sfera sessuale, che le testimonianze scritte dell’Antichità e del Medioevo ci documentano per le genti germaniche pre-cristiane, a maggior ragione si può esser sicuri del valore originario di ‘maschio trattato da donna’ attribuibile al logobardo arga.
Ho motivate convinzioni che tale valore si fosse conservato almeno fino all’epoca di Rotari, poiché nell’Editto sono presenti solo i più infamanti tra gli insulti disonorevoli di tradizione germanica, inerenti («invertito», «prostituta») o connessi («strega») alla sfera sessuale, quali sono testimoniati nelle leggi di altri regni romano-germanici e nella letteratura nordica antica. Di sicuro un po’ gli effetti della cristianizzazione si erano già fatti sentire sul comportamento sessuale; probabilmente nel 643 le relazioni omosessuali giovani-adulti erano in forte calo, innanzi tutto perché non avevano più l’antica funzione iniziatica, pedagogica messa in luce da B. Sergent. La bissessualità, un tempo diffusa tra le genti germaniche, allora era repressa, combattuta — non so con quanto successo — dagli uomini di Chiesa, che nei Penitenziali imponevano la purezza, condannando innanzi tutto la sodomia, l’adulterio (in accordo con il paganesimo), ogni genere di fornicazione e di violenza[41].
Che sia dovuto all’imbarazzo di cristiani o alla generale conoscenza (e diffuso impiego) del termine, il non aver glossato con espressione latina il longobardo arga? Anche Bonifacio di Magonza (675 c.a-754), nel suo Sermone XV: De abrenuntiatione in baptismate, nel noverare — senza una individuabile graduazione e staccando la “sessualità” dalla “strigoneria” — parecchi tipi di «opera diaboli», evita di nominare esplicitamente l’omosessualità, facendola rientrare, come sembra, tra le pollutiones (mentre per fornicatio si può intendere la ‘prostituzione’ in senso lato): «Ordunque, quali sono le opere del diavolo? Esse sono la superbia, l’idolatria, l’invidia, l’omicidio, la denigrazione, la bugia, lo spergiuro, l’odio, la fornicazione [fornicatio], l’adulterio, tutte le polluzioni [omnis pollutio], i furti, la falsa testimonianza, la rapina, la gola, l’ebbrezza, i turpiloqui, le dispute, l’ira, i venefici, ricercare incantesimi e sortilegi [incantationes et sortilegos exquirere], credere alle streghe e ai finti lupi [strigas et fictos lupos credere], abortire, essere disobbedienti ai signori, avere amuleti. Queste e cose simili sono le malvagie opere del diavolo»[42].
D’altra parte, L’Edda poetica — in Völuspá, str. 39 (X secolo) — prevedeva la punizione dopo la morte, nel luogo “infernale” chiamato Náströnd[43], di sole tre categorie di malvagi: gli spergiuri, gli assassini (quanti uccidevano senza farsi riconoscere) e i seduttori delle mogli altrui[44].

Certo l’Editto di Rotari non prevede punizioni per le relazioni omosessuali e neppure le prende in considerazione, eccezion fatta per l’allusione contenuta nell’arga, bensì tratta di incesto (cap. 185: sono le donne imparentate a subire il legame illecito), di «violenza» nei confronti di donne libere (capp. 186-7), di fornicazione volontaria da parte di ragazza o donna libera (cap. 189), di adulterio (capp. 211-2), come se fosse solo la donna, tra i liberi, a subire violenze di carattere sessuale la cui gravità richieda una codificazione scritta.
Però la Legge dei Visigoti, «edita» da Recesvinto nel 654 — un ventennio dopo l’Editto di Rotari, risalente al 643 —, «renovata» da Ervig nel 681 e integrata da Egica qualche anno dopo, puniva, nel Libro III, 5, 4 e III, 5, 7, «masculorum concubitores» e «sodomiti» con la «castratio»[45].
È poi alquanto significativo il fatto che, nei racconti dell’antica Scandinavia e d’Islanda, le pratiche magiche, la stregoneria — sulla cui natura, sulle cui forme però bisognerebbe ulteriormente indagare — siano collegate ad eccessi e trasgressioni sessuali, cioè appartenenti alla terza funzione indeuropea “duméziliana”, quella della fertilità-fecondità, rappresentata proprio dai Vani Njörðr, Freyr e Freyja[46]. Tale collegamento, una volta spiegato, per quanto possibile, in tutti i suoi aspetti, getterebbe forse una più intensa luce anche sui capitoli XXX e LXIV del Pactus Legis Salicae e sui capitoli 381 e 198 dell’Edictus Rothari.

Se confrontiamo quei due ultimi capitoli, emergono in ogni modo alcune differenze e/o analogie e parallelismi:
a) qualcuno chiama («clamaverit») un altro arga: «iniuriosum verbum» — qualcuno chiama («clamaverit») una ragazza («puellam») o una «donna libera» («mulierem liberam») sotto il mundio altrui, «prostituta o strega» («fornecariam aut histrigam»): «nefandum crimen» («accusa nefanda»);
b) l’insultante è «in preda all’ira» («per furorem») — l’insultante è «in preda all’ira» («per furorem»);
c) se l’insultante ammette ciò e giura che l’altro, a sua conoscenza, non è arga, paga poi 12 soldi («solidos duodecim») di composizione — se l’insultante ammette ciò e il suo pentimento, e giura, assieme a dodici suoi sacramentali (uomini liberi co-giuranti), che era mosso dall’ira e senza alcuna motivazione certa («non de certa causa cognovissit»), paga poi 20 soldi;
d) se l’insultante insiste, deve dimostrare in duello («per pugnam»), se può farlo, che l’attribuzione dell’epiteto è fondata — se l’insultante insiste e sostiene di poter provare l’accusa, deve dimostrarne la fondatezza mediante un duello («per pugnam»), cioè ricorrendo al giudizio di Dio,
e) altrimenti, se non può provarlo, paga i 12 soldi — altrimenti, se non può provare l’accusa, deve pagare il guidrigildo («wergild») dell’accusata.
Purtroppo nell’Editto di Rotari non sono contemplati, come ho già rilevato, altri tipi di accusa o insulto infamante, che assieme avrebbero potuto costituire una gerarchia comparabile con quella del Pactus Legis Salicae evidenziata da Rouche. Ciò nonostante, mi pare ragionevole sostenere che le analogie e l’unicità più che a due distinte formulazioni da parte di redattori diversi o in momenti diversi, fan pensare ad una redazione dei due capitoli avvenuta nello stesso momento o in due distinti momenti, però ad opera di uno stesso compilatore (o di due, il secondo dei quali abbia seguito da vicino la formulazione operata dal primo). Quindi una certa consapevolezza che i due tipi di ingiuria sono di gravità simile — l’una rivolta a un uomo, l’altra rivolta a una donna o fanciulla — e al tempo stesso differente: è considerata più grave infatti l’infamazione femminile. Va infatti sottolineato come le leggi longobarde (non meno della Legge Salica e delle altre leggi germaniche) tendessero alla salvaguardia della purezza, dell’onorabilità, dell’integrità delle donne libere da ogni forma di violenza, oltraggio e comportamento illecito in genere, che si sarebbe ripercossa negativamente su chi ne deteneva il potere di tutela, il mundio. E al tempo stesso rammentassero quali erano le condizioni femminili di dipendenza (di subordinazione) e quali i comportamenti illeciti, disonorevoli e/o puniti giuridicamente: l’adulterio, l’uccisione del marito, la fornicazione, il coniugium con un servo (cap. 221) — punito con la morte o la vendita come schiava fuori del regno[47] —, la stregoneria, la partecipazione ad una rissa. Per quest’ultimo fatto, il cap. 378 stabilisce che la composizione da pagare in caso di danno fisico provocato ad una donna libera accorsa ad un tumulto, debba essere la stessa prevista per un ugual danno al fratello, ed inoltre non possa esser richiesto alcun indennizzo per subita offesa (900 soldi), perché «ella stessa è accorsa alla zuffa, il che per le donne è cosa disonorevole da fare»[48]. Non per niente non potevano portare armi e difendersi, né a quanto mi consta, se insultate, potevano contro-calunniare l’insultante. Tutto sommato, la donna visigota e la húsfreyja «custode delle tradizioni familiari», che in caso di divorzio o separazione manteneva la sua dote (heimanfylgja) e la sopraddote (mundr), che nelle saghe islandesi (composte qualche secolo dopo) rimprovera gli uomini della propria famiglia di essere poco maschi e li incita a combattere con ardimento, a vendicare le offese[49], credo godessero condizioni (relativamente) migliori rispetto a qualsiasi moglie di arimanno del VII secolo[50].
Solo con le Leggi di Liutprando la donna longobarda vede migliorare la propria situazione — capacità successoria riconosciuta alle figlie, maggior autonomia dipendente dalle «nuove capacità patrimoniali» (in precedenza costituivano beni disponibili per la donna sposata soltanto la meta, specie di dote, e il morgingab, il ‘dono del mattino’) —, pur continuando a subire violenze, anzitutto sessuali e morali («rapimenti, stupri, adulteri»)[51].
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[1] «[...] testi di tradizione lgb. come l’Editto di Rotari (197 “striga quod est masca”) [...] L’alternativa aiuta a comprendere, a individuare meglio il significato di una qualsiasi parola, riduce quindi il rischio di incomprensione. E non è detto che una parola oscura appartenga alla categoria ‘volgare’, cui molte parole lgb. si accodano. È frequente il caso che proprio la parola classica, ricercata, sia ostica per la gente comune» (P. Scardigli 1987: 278).
Sul bilinguismo, Bruno Migliorini osserva: «Poco c’insegnano per quel che concerne il procedere del bilinguismo le glosse e i glossari. Già nei testi degli editti qualche termine più difficile, longobardo o no, è spiegato con un sinonimo» (B. Migliorini 1962: 50).

[2] Ed. Roth. 1868: 48, 87.

[3] In C. Azzara, S. Gasparri 1992: 114 (nota 95), si osserva giustamente che nei capp. 197-8 «il riferimento alle streghe [...] è complessivamente fugace».
Gasparri rileva come le accuse di stregoneria vengan viste dal legislatore «con preoccupazione come facile strumento di diffamazione e quindi come fonte di eventuali discordie, all’interno della stessa famiglia o tra differenti gruppi parentali (S. Gasparri 1983: 96).
Delogu, relativamente ai capp. 197-8, parla di false accuse di «adulterio» o di «magia» (P. Delogu 1980: 81).

[4] G. Barni 1987: 87; Paolo Diacono 1992: 523; C. Azzara, S. Gasparri 1992: XXVIII.
Delogu pensa sia il cap. 386 a chiudere il «corpo principale» dell’Editto e ritiene i restanti capitoli «integrative aggiuntive» (P. Delogu 1990: 136).

[5] Nell’indice-glossario alle Leges Langobardorum, s. v. intrinsecus comedere (in Leges Lang. 1868: 672), il curatore, Friedrich Bluhme, pone tra parentesi la seguente traduzione: «von innen auffressen» («divorare dall’interno»).

[6] Nell’Editto, sono previsti i casi di uccisione di aldi e servi maschi (capp. 129-36), di aldie, liberte e ancelle «violentiatae» (capp. 205-7) e di ancelle, «gentiles» o «romanae», con cui «qualcuno ha fornicato» (cap. 194) (Ed. Roth. 1868: 30-1, 50-1, 47; C. Azzara, S. Gasparri 1992: 36-9, 60-1, 56-7). Non mi risultano casi di ingiurie o calunnie, che tuttavia potrebbero essere stati abbastanza frequenti, ma non puniti (si veda quanto affermato da P. Delogu: «le ingiurie [...] non avevano rilevanza giuridica contro i non liberi» (P. Delogu 1980: 63). D’altra parte, la tendenza dei padroni ad unirsi con le proprie schiave era ben diffusa presso i Germani (e i Romani): non valevano, per esse, tutte quelle misure a salvaguardia della verginità e contro la fornicazione e l’adulterio che troviamo — anche nell’Editto — nei capitoli riguardanti le donne e le fanciulle libere (cfr. M. Rouche 1986: 354, 359-60; S. F. Wemple 1990: 212, 214).
Il cap. 194, come rileva Claudio Azzara, sembra fuori posto, perché è inserito all’interno di un gruppo di capitoli (186-204) riguardanti i casi di donne libere, e non nel blocco di quelli relativi alle aldie e alle serve (205-10). Inoltre nelle «ancillae gentiles» e nelle «romanae ancillae» sembra siano da vedersi rispettivamente “serve di Longobardi” e “serve di Romani”, piuttosto che serve di stirpe longobarda e romana (C. Azzara, S. Gasparri 1992: XXVIII, 56-7; S. Gasparri 1997: 149-51).

[7] Se fosse effettivamente avvenuta l’uccisione di donne libere considerate «mascae», non credo che l’Editto e le successive leggi longobarde ne avrebbero taciuto; comunque, sarebbe sempre stato possibile applicare le sanzioni previste per gli omicidi in genere.

[8] Sul rapporto tra donne «corrotte»/«disoneste» e prostituzione: M. Rouche 1986: 354.
Gasparri, a proposito dell’accusa di essere una «striga» dei capp. 197 e 198, sostiene che «il legislatore lascia almeno formalmente intendere» che la ritiene assurda, ma nel cap. 198 l’alternativa «fornecaria aut histriga» «lascia aperta la possibilità per l’accusatore (che qui è persona diversa dal mundualdo della donna) di provare quanto afferma mediante duello: l’accento, tuttavia, potrebbe qui essere messo più sull’accusa di fornicazione che su quella di stregoneria propriamente detta», come è dimostrato anche dall’accenno alla pena prevista nel caso di provata colpevolezza dell’accusata, che sembra rinviare al cap. 189 (S. Gasparri 1983: 95-6).

[9] Ed. Roth. 1868: 45.

[10] Cfr. C. Azzara, S. Gasparri 1992: 114 (nota 95) e S. Gasparri 1983: 96.

[11] In S. Gasparri 1983, alle pp. 96-9 — Capitolo V: La testimonianza delle Leggi, par. 1. Rotari [per le prime pagine (93-6) del capitolo, v. note 22, 32, 37, 38], l’Autore riscontra o constata quanto segue:
1) nel cap. 376 si parla di «credenze in pratiche stregonesche in senso stretto», e diversamente dal cap. 198 tali pratiche non possono essere confuse con altre;
2) «l’origine del nome striga», e delle credenze relative, «ci porta proprio alla definizione che ne dà Rotari, che la indica come divoratrice di uomini. Siamo quindi alla radice stessa della fede nelle streghe» [se ne deduce pertanto che per Gasparri le «pratiche stregonesche in senso stretto» siano le «pratiche cannibalistiche», cui accenna subito dopo nella nota 132];
3) confrontando i tre capitoli, si potrebbe arrivare a distinguere tra:
a) «un tipo più lieve di pratiche stregonesche», imputato a donne libere, «la cui attività illecita si confondeva talvolta con la fornicazione» [«come nel cap. 198»], e
b) «una stregoneria vera e propria, tipica di un livello sociale subalterno», vale a dire, per il 643, «romanico» [ricordo però che nel cap. 376 il legislatore stabilendo come debba esser punito chi ha ucciso un’aldia o un’ancella da questi ritenenuta una masca “antropofaga”, non esclude il caso che qualcuno possa reputare e chiamare masca una libera, come attestano il cap. 197 e, nel 376, la frase «ut mulier hominem vivum intrinsecus possit comedere»; è preferibile, almeno per ora, in mancanza di altre testimonianze (in special modo esaurienti e comparabili in modo pienamente corrispondente), evitare di proporre più o meno nette distinzioni tra livelli o gruppi sociali];
4) il confronto con capitoli di analogo contenuto della Legge Salica (capp. XIX e LXIV), induce a ritenere «la magia della donna libera» longobarda «una ‘fascinazione’ a sfondo prevalentemente sessuale».
5) rispetto alla Legge Salica, «gli accenni alla stregoneria in Rotari sono molto blandi», limitati alle streghe e al loro cannibalismo; inoltre nella Legge Salica è espressa «apertamente la fede nell’esistenza delle streghe»;
6) «la presenza indubitabile di pratiche cannibalistiche a scopo magico-rituale» nella Capitulatio de partibus Saxoniae (cap. 6), «l’esistenza di forti tratti comuni» a Longobardi e Sassoni, «la presenza di riti a sfondo cannibalistico in età più antica» presso i Longobardi (cfr. la celeberrima storia di Alboino e Rosmunda), sono «elementi sufficienti per considerare almeno possibile la persistenza di culti stregoneschi a sfondo cannibalistico nella società longobarda dell’anno 643»; in S. Gasparri 1990b: 20 però, non vi è più alcun accenno a pratiche cannibalistiche, bensì si afferma che «l’uso di conservare il cranio dei nemici uccisi [...] aveva lo scopo di assicurare al vincitore la forza vitale del nemico morto» e che «l’offerta fatta alla regina di bere nella tazza-cranio» di Cunimondo «si inserisce in un rituale propiziatorio verso il defunto» (simile la spiegazione formulata in W. Pohl 2000: 156: l’utilizzazione di un cranio come calice per bere era «una pratica magica diffusa, per trasferire su di sé la forza del morto»); in S. Gasparri 1997: 130, si rileva invece che si trattava de «l’osservanza di un preciso rituale guerriero, in base al quale ai nemici uccisi, se valorosi e di alto rango, veniva tagliata la testa e trasformata in coppa per libagioni a carattere sacro [...] un rituale tipico dei popoli nomadi».
7) nell’Editto è testimoniato «un momento iniziale» dell’«incontro tra tradizione germanica e pratiche indigene», tra la fede nella stregoneria propria dei Longobardi — già «entrata in una lenta decadenza» prima della condanna ufficiale espressa da Rotari — e le «“superstizioni” analoghe di origine italica, e, come tali, vive soprattutto presso gli strati inferiori, non liberi, della popolazione» [si veda quanto osservato al punto 3), b)].
Poiché a p. 124, nella nota 183, riguardo al ricorso agli indovini (arioli e ariolae) punito da Liutprando nei capp. 84-85 delle sue Leggi (cfr. C. Azzara, S. Gasparri 1992: 170-3), Gasparri soggiunge: «Anche gli accenni alla stregoneria presenti in Rotari non si elevano da un livello di credenze di tipo magico», si ha qui conferma di quanto detto dall’Autore in precedenza a p. 95, là dove, constatando che appunto le credenze non cristiane cui l’Editto accenna sono di «tipo magico» e compaiono «riferimenti abbastanza espliciti» solo riguardo alle «streghe», fornisce una quasi-definizione (in sostanza una definizione) di ciò che si deve intendere per magia: «Si tratta di credenze di tipo magico, quindi in un certo senso “inferiori” rispetto al culto vero e proprio».
È evidente che così si crea un “contenitore” nel quale, tolte le credenze e pratiche propriamente religioso-cultuali, le credenze («respinte», ma non «perseguite») e le pratiche stregonesche di tipo cannibalistico (cfr. pp. 95-8, 122) possono stare accanto a quelle divinatorie (cfr. pp. 121-3), all’uso di erbe magiche da parte di un campione (cap. 368 dell’Editto; cfr. pp. 101, 122, 139), all’azione magica contarninante-isterilente operata gettando aquam sorditam su una sposa (cap. 15 delle Leggi di Astolfo; cfr. pp. 150-1), e, per realtà testimoniate anche più anticamente e/o al di fuori delle Leggi, al valore magico della capigliatura (capp. 80 e 141 delle Leggi di Liutprando, cap. 4 delle Leggi di Astolfo; cfr. pp. 144-8), al valore magico delle armi di un eroe (di Alboino; cfr. pp. 52-4), alla «conservazione del cranio» del re gepido Cunimondo da parte di Alboino (cfr. pp. 43-4), per la quale conviene prescindere da forme di previo «cannibalismo rituale», sul quale nulla ci dicono le fonti: mi pare infatti ben diverso il caso di antropofagia accennato nel cap. 376 dell’Editto (cfr. comunque sulla figura di Alboino, P. Delogu 1980: 11-2).
(Sulla definizione e le varie forme di magia del Medioevo si veda R. Kieckhefer 1993, innanzi tutto alle pp. 3-5, 12-21.)

[12] C. Azzara, S. Gasparri 1992: 102.

[13] C. Azzara, S. Gasparri 1992: 119; Paolo Diacono 1992: 576.
J.-P. Poly traduce invece l’arga del cap. 381 dell’Editto con «foutu» (‘fottuto’) (J.-P. Poly 2003: 223-4).

[14] W. Pohl 2000: 93.

[15] P. Scardigli 1987: 220, 273.

[16] M. Rouche 1986: 381-2.
Elencando nell’ordine proposto da Rouche le ingiurie con le rispettive ammende, si ottiene in effetti una serie in cui la diminuzione progressiva della gravità degli insulti viene interrotta dalle ingiurie-accuse di «traditore» e «spione»: «prostituta» («solidos XLV»), «pederasta» («solidos XV»), «fruga-merda» («solidos III»), «volpone» («solidos III»), «traditore» («solidos XV»), «spione» («solidos XV»), «lepre» («solidos III»), e chi ha gettato lo scudo («solidos III»).

[17] P. Leg. Sal. 1962: 118-20.

[18] Mallobergus, voce mediolatina di origine germanica, è composto da mallus, mallum ‘assemblea giudiziaria, corte popolare, tribunale pubblico’ (< *mahal- < germ. maþl- neutro, cfr. l’a.a.t. mahal ‘patto, accordo legale’) + -bergus, forse significante ‘collina’ (se dal germ. *berga- ‘monte’), da cui, secondo J.-P. Poly, mallobergus = «colline aux palabres» (‘collina delle discussioni’), o anche, stando a P. Riché, ‘collina dei discorsi’ (il malberg era il «Tumulus su cui si esercitava la giustizia popolare dei Franchi una volta al mese»). Oppure da accostare al got. *bairgan ‘custodire, conservare’, ted. bergen ‘recuperare, salvare’. Cfr. M. Caravale 1994: 75, N. Francovich Onesti 1999: 90, J.-P. Poly 2003: 90, P. Riché 1996: 220, W. P. Lehmann 1986, s. v. *bairgan.

[19] J.-P. Poly 2003: 222) preferisce, a quanto pare, la lezione caenitum (nel ms. K 46), da cui trae un nominativo cenitus che traduce con «embourbé», cioè ‘affondato nel fango (o in un letamaio)’ [dal lat. caenum ‘fango, melma’].

[20] Il termine quintuc potrebbe essere un diminutivo in -c di un nome associabile al m.a.t. kunt ‘cunnus’, nederlandese kont ‘culo’, ‘genitali femminili’ (< germ. kuntō-) (http://www.etymologiebank.nl/trefwoord/kont; M. G. Saibene 1996: 309). Viene tradotto da J.-P. Poly con l’espressione «culo di donna» (J.-P. Poly 2003: 222).

[21] Cfr. l’a. fr. conchié = ‘insozzato (di merda)’, ‘disonorato’; nel Du Cange il valore di concagatus è reso con le voci francesi «Foireux, Breneux» (rispettivamente: ‘sporco di escrementi, merdoso’ e ‘vile’, ‘laido’) (Du Cange, et al. 1883‑1887, t. 2, p. 475, coll. a-b).
Per J.-P. Poly 2003: 222) «conchié» è «celui qui s’oublie de peur», vale a dire che ‘se la fa addosso per la paura’.

[22] J.-P. Poly 2003: 222, 536 (nota 67) corregge strabo in *strado, vale a dire «une femme “etalée”» (= ‘esibita, in mostra’, ‘che ha molte relazioni’), «da confrontare con l’a. ingl. straegdan, “gettare per terra, spargere”, e col norr. stredha, “avere rapporti sessuali”» [stredha = ‘prostituirsi’].

[23] J.-P. Poly 2003: 222, 536 (nota 66) invece corregge austrapo in anstrapo, significante «débouclé» (‘slacciato’, detto di chi ha slacciato la correggia del proprio scudo), che fa derivare da una voce strop ‘correggia’, connessa al lat. struppus, stroppus e all’ingl. strap, strop.

[24] Cfr. J. F. Niermeyer 1993, s. v. falsator.

[25] Ancora oggi esistono in tedesco l’aggettivo arg con i significati di ‘cattivo, maligno, brutto, grande’, e il sostantivo Arg, ‘malizia’, rispettivamente dal m.a.t. arc ‘cattivo, vile’, a.a.t. arg, arc ‘cattivo’, e m.a.t. arc, a.a.t. arg, arc(h) ‘male’ (a.a.t. argi ‘malvagità’). Cfr. M. Lexer 1992: 7; R. Schützeichel 2006: 39; F. Kluge 1989: 38.

[26] J. Pokorny 2005: I, 339 e 326-8.

[27] J. de Vries 1977b: 686.
J. de Vries (1977b: 13) attribuisce ad argr, ragr i valori di ‘vile, effeminato; immorale’.

[28] J. Pokorny 2005: I, 782.

[29] Sulle voci germ. arga, arg, argr, cfr. anche J.-P. Poly 2003: 200, 213, 222-4.

[30] P. Leg. Sal. 1962: 230-1.

[31] Leges Alam. 1863: 36; Leges Alam. 1888: 23.

[32] J.-P. Poly (2003: 176-7) traduce l’herburgium del cap. LXIV del Pactus Legis Salicae con ‘protezione dell’Esercito’, vale a dire del «wutende Here», l’«Esercito furioso» (Wütendes Heer) (sul quale cfr., tra gli altri, C. Lecouteux 1999 e K. Meisen 2001): «Se qualcuno ha accusato un altro di her(e)burgium [protezione dell’Esercito], vale a dire spartizione con le streghe (strioportio), o colui di cui si dice che porti il calderone di bronzo là dove le streghe cuociono, al mallberg è Humnisfitch [andare a cercare quello d’Hymi]». Secondo lo studioso francese, «quello d’Hymi» sarebbe il calderone: Hymi [Hymir, Hýmir], «gigante-lupo» della tradizione norrena, ne possedeva infatti uno (cfr. G. Chiesa Isnardi 1991: 128-34, 654).
Si confronti però la traduzione del Poly col testo del capitolo dell’edizione a cura di K. A. Eckhardt: «Si quis alterum herburgium [«herburgius = Hexendiener», ‘servitore di streghe’] clamauerit, hoc est strioportium [«strioportio = Hexenträger», ‘portatore, facchino delle streghe’], aut illum, qui inium portare dicitur, ubi strias coccinant, et non potuerit adprobare, mallobergo humnisfith [= «Sühnegeld», ‘indennizzo’] hoc est, MMD denarios qui faciunt solidos LXII semis culpabilis iudicetur» (P. Leg. Sal. 1962: 230-1, 283, 304, 317).

[33] J.-P. Poly interpreta faras come *faeráes ‘carogna del viaggio’ (ma purtroppo non precisa i motivi di una tale ricostruzione; cfr. comunque il ted. Aas ‘carogna’ < germ. occ. *æ̅sa-), ove per «viaggio» secondo lo Studioso si devono intendere le pratiche di tipo sciamanico cui erano dedite le streghe (J.-P. Poly 2003: 177, 222).

[34] Cornelio Tacito 1990: 26-7; cfr. anche C. Lecouteux 1986: 28. Sulle donne, forse adultere streghe, giustiziate e immerse nelle paludi dello Jutland, nei secc. IX-V a.C. — ma vi sono anche casi più recenti —, cfr. J.-P. Poly 2003: 156-9.

[35] J.-P. Poly precisa che secondo Ammiano Marcellino i Tafali costituivano una «frazione dei Sarmati iraniani», ma in realtà tale affermazione non trova alcun riscontro nell’opera di Ammiano (J.-P. Poly 2003: 61).

[36] Cfr. R. Boyer 1986b: 238, 1986a: 174, e 1994: 180.

[37] Cfr. uuargus in Pactus Legis Salicae, cap. LV, par. 4 (P. Leg. Sal. 1962: 207).

[38] Cfr. R. Simek, H. Pálsson 1987: 145-6.

[39] B. Sergent 1986: 160-70; R. Boyer 1991a: 201.

[40] E. Mundal 1992: 313-5.

[41] Cfr. M. Rouche 1986: 402-8.
In epoca posteriore, nei penitenziali dei secoli X-XI, la categoria delle colpe più gravi comprendeva «l’incesto e l’unione con una monaca, infrazioni vicine, la sodomia omosessuale e la bestialità, pure raggruppate, e infine lo stupro». Seguivano «l’adulterio e la fornicazione semplice con una vedova o una vergine, l’accoppiamento a tergo, qui la sodomia, con una donna, e talvolta una polluzione grave, per esempio “strofinandosi contro le natiche di un ragazzo”» (J.-P. Poly 2003: 388-9).

[42] Bonifacio 1863: col. 870; traduzione di Erberto Petoia, in E. Petoia 1991: 221.

[43] Cfr. R. Simek 1984: 280 e C. Lecouteux 2005: 173.

[44] C. A. Mastrelli 1982: 6, 312-3 e P. Scardigli 1982: 11; cfr. altresì: Gylfaginning 52 — ove manca però il verso menzionante i seduttori —, in Snorri Sturluson 1991: 154-5; Reginsmál, str. 3-4, in C. A. Mastrelli 1982: 156, 422, e P. Scardigli 1982: 198; E. Mundal 1992: 316-7.

[45] Leges Visig. 1902: 163 e 165. Cfr. J.-P. Poly 2003: 62-3.

[46] Su Freyja e i suoi legami con la sessualità, la magia e i morti, cfr. R. Boyer 1994: 215.

[47] Cfr. P. Delogu 1980: 56, 80.

[48] C. Azzara, S. Gasparri 1992: 100-1. Il cap. 378 viene ripreso nel cap. 141 delle Leggi di Liutprando, ove si comminano la decalvatio e la frusta a donne radunate e inviate dai loro uomini contro altri ad esse inferiori di forze (C. Azzara, S. Gasparri 1992: 202-5 e 214, nota 63; S. Gasparri 1983: 142, nota 208).

[49] R. Boyer 1994: 7, 69.

[50] Sulla donna nel VI-VII secolo, cfr. S. F. Wemple 1990: 211-7; sulle donne longobarde cfr. P. Delogu 1980: 77­-81, e D. Herlihy 1994: 63: «Fra tutti i codici nazionali, la legge longobarda era quella che poneva il maggior numero di restrizioni alla libertà delle donne».

[51] S. Gasparri 1983: 116-8; P. Delogu 1980: 77-8, 142.

sabato 2 luglio 2011

Sul sistema cromatico bianco-rosso-nero


Ogni cultura — ci ricordano gli etnolinguisti — ha un suo particolare sistema di colori (come minimo a due termini fondamentali contrapposti), che come tutti i fenomeni culturali è soggetto a cambiamenti, a prestiti e sostituzioni, e tende ad allargarsi più che non a ridursi.
In effetti, le strutture cromatiche dovrebbero rientrare piuttosto nell’orizzonte storico della «lunga» o della «media durata», ma nella nostra società, negli ultimi sessant’anni circa, si è verificata una progressiva perdita dei valori simbolici che le passate generazioni assegnavano, per tradizione, ai colori ritenuti «fondamentali». Oggi infatti assistiamo, anche nell’ambito di quella che Giorgio Raimondo Cardona ha chiamato «la visione del colore», ad un’“esplosione del molteplice”, dovuta alle novità tecnologiche e alle tendenze socio-economiche del mondo occidentale. La gamma dei colori ottenuti artificialmente è diventata vastissima, si fa fatica o è impossibile riconoscerli e distinguerli tra loro e dagli stessi colori naturali; ci si limita a chiamarli con termini classificatori a definizione bassa, grossolana. Nella svariatezza delle proposte, nella continua ricerca di novità e cambiamenti imposti dal mercato, dalla moda, dalla spettacolarizzazione, sono “saltati” o non riescono a (ri-)emergere quei valori simbolici che un tempo erano sicuro riferimento culturale della comunità di appartenenza [1].

Ben diversa la situazione nei secoli scorsi, durante le epoche preindustriali. Nelle società indeuropee occidentali – riferisce lo storico Michel Pastoureau –, fino all’XI secolo si mantenne un sistema cromatico tripolare, nel quale al bianco («il chiaro e il poco denso») si contrapponevano sia il rosso («il denso», «il colore “per eccellenza”») che il nero («l’oscuro»). Il blu e il verde rientravano nella concezione di «scuro», erano percepiti come varianti del nero. Il giallo era spesso associato al bianco (rispettivamente, i colori dell’oro e dell’argento). Dopo la metà dell’XI secolo si affermò sempre più il blu, fino ad arrivare al XIII secolo — quando il rosso ne dovette subire, «per la prima volta dalla protostoria», la concorrenza —, e ancor oltre, fino ai nostri anni [2].
In particolare, come rileva Manlio Brusatin, in epoca imperiale, nella società romana (“originariamente” a sistema cromatico bianco-rosso-nero), al rosso porpora (color principalis, divenuto color officialis degli stessi Imperatori) si contrappose il blu (caeruleus color), colore dei barbari: estratto dalle foglie e radici del guado, una pianta erbacea tintòria, veniva usato dai Britanni (anche dai Picti dell’attuale Scozia) per dipingersene il corpo, allo scopo di incutere terrore ai nemici. In latino il guado era detto vitrum e glastum [3].
Colori contrapposti contrassegnarono al circo, alle corse ippiche, le diverse fazioni: il bianco degli albati, il rosso dei russati, il verde dei prasini (dal greco prásinos ‘verde porro’ < práson ‘porro’), l’azzurro dei veneti (associato ai Veneti della Venetia cisalpina, e — in via congetturale — ai loro allevamenti di cavalli da corsa e/o al loro artigianato tessile) [4].

Lo schema cromatico degli Antichi Romani, in buona sostanza, era lo stesso di base degli altri gruppi parlanti idiomi indoeuropei (uno schema che si ritrova anche al di fuori del «mondo indeuropeo») [5]. Nei loro tre «colori simbolici» fondamentali va riconosciuta una testimonianza dell’«ideologia tripartita» o trifunzionale, individuata da Georges Dumézil nella cultura indeuropea: bianco, rosso, nero/blu erano i colori, nell’ordine, dei sacerdoti (1ª funzione), dei guerrieri (2ª f.), dei produttori (3ª f.).
Secondo Jean Haudry, i tre colori sarebbero in rapporto con le tre funzioni a livello sia sociale che cosmico: tre cieli si ritenevano girare attorno alla terra, vale a dire il cielo «diurno», bianco, il cielo «notturno», nero, il cielo «aurorale» e «crepuscolare», rosso [6]. Bernard Sergent fa notare però come questa tesi si regga soltanto «su una stanza del g-Veda e manchi di paralleli indeuropei» [7].

In particolare, in ambito celtico, il bianco è proprio della prima funzione, la sacerdotale; il rosso della seconda, la guerriera; il blu, il verde e il giallo della terza, quella artigianale e produttrice [8].

Bianco. È il colore dell’«unità» e dell’«unicità» del sacerdozio, e delle vesti dei druidi (il neo-druidismo evidentemente ha creato una nuova tradizione nel vestire i bardi di azzurro e i vati di verde), perché «è la somma di tutti i colori divini», quelli dell’arcobaleno. È al tempo stesso colore regale.
Il termine celtico comune *indos, ‘bianco, bello, puro, sacro, benedetto’, ha dato in gallico: vindos, in antico irlandese: find (oggi fionn), in medio gallese: gwynn, f. gwenn [9] (attuali gwyn, f. gwen), in antico cornico: guyn, in antico bretone: guinn (oggi gwenn).
*Vindo- è attestato in diversi toponimi d’origine gallica: Vandoeuvre, Vend, Vendasio, Vendée, Vendeuil, Vendoglio, Vendôme, Vent, Windish; forse Monte Venda e Vendevolo, ed altri ancora [10]. Si comprende agevolmente come lo spazio, i monti, le acque, e la stessa fondazione di centri, per la loro sacralità, per la presenza di esseri soprannaturali, per l’intervento sacerdotale, rientrassero nella prima funzione.
Accanto a *indos, va posto l’aggettivo celt. *argos ‘bianco, brillante’, da cui il gall. *argio- ‘bianco, brillante’, e il medio cimr. eiry (attuale eira), il medio corn. irch (corn. ergh), il br. erc’h, significanti ‘neve’ (valore acquisito in epoca più recente). E così pure un tema gall. *cand(i)- > *cann-’bianco, brillante’, confrontabile con il cimr. cann, corn. can, br. kann (< *cando-) ‘bianco, brillante’ e il lat. candidus.
In irlandese, inoltre, col valore di ‘bianco’ è presente l’aggettivo bán, a. irl. bán ‘bianco, brillante’, secondo J. Vendryes (1981b) da *bhā-no- o *bhō-no-, forme che risalgono a una radice *bhā- o *bhē- ‘brillare’ [11], rappresentata anche in sanscrito, greco, germanico. Inoltre l’agg. a. irl. gel (equativo gilithir [12]), per il quale si veda infra.

Rosso. È il colore sia dei guerrieri (del sangue, del fuoco) che del sapere: l’irlandese Dagda (‘il dio buono’) è soprannominato Ruadh Rofhessa, ‘il Rosso della Grande Sapienza’.
Da un celtico primitivo *roudos ‘rosso’ < ie. *roudho-, dalla radice *(h1)reudh- ‘arrossare’: antico irl. rúad ‘rosso scuro’ (attuale rua), a. e medio cimr. rud, gallese rhudd, medio corn. rud, a. bret. rud (oggi ruz).
Ricordo il solo toponimo dei campi Raudii (se si tratta di trascrizione latina di -ou- gallico, o dello scambio au / ou rilevabile in altre parole galliche); *roudos si ritrova piuttosto in qualche teonimo e antroponimo gallico e brittonico (collegato alla forza, al coraggio, oppure al colore dei capelli) [13].
Si rintraccia inoltre in gallico un tema *dergo- ‘rosso, sanguigno’, confrontabile con l’a. irl. derg, ‘rosso, sanguigno’, ‘rosso vivo’ (attuale dearg ‘rosso’) e con l’anglosassone deorc ‘scuro’ (> ingl. dark), dall’ie. *dherg-, però «senza correlati in brittonico».
Vanno menzionati infine anche il gall. *cocos, *coccos ‘scarlatto, rosso’, l’a. irl. coic, il cimr. e corn. coch ‘rosso’, probabili prestiti dal lat. coccum ‘tintura scarlatta, scarlatto’.

Blu, giallo, verde, grigio. Sono simbolo di «varietà» e «molteplicità». Sono i colori «in rapporto con la vegetazione»; però nei racconti celtici «appaiono raramente» nel loro aspetto funzionale.
Blu e verde costituiscono linguisticamente e concettualmente un unico colore, tant’è che nelle lingue celtiche attuali glas significa ‘blu, verde, grigio’, dal celtico *glasto- (< *ghsto- < *ĝhel-/*ghel-), alla base anche del gallico *glaston, latinizzato in glastum ‘guado’ [14]: a. irl. glas ‘blu, verde’, cimr. glas ‘blu’, br. glas ‘blu, verde, grigio pallido’.
Si individua poi un tema gall. *bugio- ‘blu’ (‘fiore blu’?) in alcuni nomi personali (tra i quali Bugius, Bugia, Enobugius), confrontabili con l’a. irl. buga, «nome di un fiore blu», forse giacinto o lino, e usato anche in riferimento al colore degli occhi.
Dal tema celtico *(p)leito- > *lēto- (< ie. *pel- ‘grigio’) derivano: il cimr. llwyd ‘grigio, pallido’, ma anche ‘santo’; l’a. br. loit ‘canuto’, il bretone loued ‘grigio, canuto’; l’a. irl. líath (attuale liath ‘grigio’). È il ‘grigio’ degli anziani, della saggezza (cfr. le voci lat. pallidus, pallēre).
Esisteva probabilmente in gallico un aggettivo *blāros ‘grigio’ (cfr. il NP Blarus), comparabile con l’a. irl. blár, nome personale («in particolare di un cavallo»), il gaelico di Scozia blàr («animale che ha una macchia bianca sulla fronte»), il cimr. blawr ‘grigio’. Tali voci dipendono dalla radice ie. *bhlō-, «designante diversi colori pallidi», cui risalgono anche l’a. irl. blá ‘giallo’ e il lat. flāvus ‘biondo’ (< *flō-uus).
Da una forma *melinos, comune anche al gallico, discendono l’a. e medio gallese melin ‘giallo’ (attuale melyn), l’a. corn. milin ‘flavus’, l’a. br. milin, bretone melen ‘giallo, biondo, dorato’. Secondo X. Delamarre potrebbe trattarsi di un derivato in -(i)no- di *méli(t), antico nome indeuropeo del ‘miele’, mentre nell’Ernout-Meillet lo si collega alla radice indeuropea *mel- ‘macchiare’, del greco mélās ‘nero’ [15].
Dal celtico *badio-/*bodio- derivano l’a. irl. buide (oggi buí) ‘giallo, flavus’, e il gall. *badios, *bodios ‘giallo, biondo’ (individuabile nell’etnonimo Bodiocasses [16]). Si confrontano con l’aggettivo lat. badius, ‘baio, bruno’, il quale, se non è un prestito dal gallico, potrebbe anch’esso derivare da un *bhə-dyo-s, dalla radice ie. *bhā-, *bhō-, *bhə-.
Il lat. giluus ‘isabella, sauro chiaro’ sarebbe stato tratto da una forma gall. *giluos ‘bruno chiaro’, dall’ie. *ĝhelu̯os ‘giallo’ (forse da *ĝhel-s-u̯os) < *ĝhelə- [*ĝhelh3-] ‘dorato, biondo’; cfr. inoltre il cimr., corn., br. gell ‘bruno, baio, rossastro’ (< *ĝelno-) e l’a. irl. gel ‘bianco, brillante’, attuale geal (< *ĝelo-), raffrontabile con l’irl. gile ‘candore’.
Dai nomi di persona d’origine celtica Glitius, Glitia e Glitilleia Xavier Delamarre ipotizza una base *glit-, dall’ie. ĝhlto- ‘giallo, dorato’ (cfr. l’ingl. gold).
I termini inerenti alla terza funzione si riconoscono in qualche nome di persona e in alcuni toponimi, in riferimento talvolta al materiale da costruzione (pietre grigie o azzurre) o, nel caso di corsi d’acqua, al colore delle acque.

Nero. È un «non-colore» (la mancanza di luce). Era attribuito a ciò che si collocava al di fuori di ogni classificazione funzionale.
Dal celtico *dubu- (< ie. *dhubh-): il gall. *dubus, dubis, dob- ‘nero’, l’a. irl. dub ‘nero’ (oggi dubh), l’a. cimr. Dub-, il cimr. (antico, medio e moderno) du ‘nero’, l’a. corn. duv ‘niger’, il br. (a., medio e moderno) du ‘nero’.
Rintracciabile in nomi di persona irlandesi e brittonici e in toponimi, soprattutto idronimi: ad esempio, il gallico *Dubisamos, *Dubisama, ‘il/la più nero/-a’ > Duesme, Dôme; il gall. Dubis > Doubs; l’irl. Dubh-linn ‘Dublino’ < *dubu-lindon ‘stagno nero’.
Si può ricordare inoltre l’a. irl. cíar ‘scuro, nero’ (irl. ciar), da *ḱeiro-, confrontabile con il norr. hárr ‘grigio, venerabile’, dal germ. *hairu < *ḱoiro-.

Un certo numero di attestazioni della triade cromatica bianco-rosso-nero si incontrano qua e là nei racconti celtici. Alcune sono state rintracciate da Philippe Jouët.
1. Durante il suo viaggio alla ricerca del figlio di genitori senza colpa da sacrificare presso Tara, Conn Cétchathach (‘dalle cento battaglie’) in un’isola strana vede un palazzo con il tetto di piume d’uccello bianche, gialle, blu: «find 7 bhuighi 7 ngorm» [17].
2. Nella versione III della Tochmarc Étaíne (Corteggiamento di Étaín), al § 10, 2ª quartina, Midir — ma per Ph. Jouët si tratterebbe di Oengus che riconosce nella fanciulla i «”tre colori cosmici”» — cerca di persuadere Étaín ad andare con lui «nel paese meraviglioso ove c’è musica» (una localizzazione dell’Altro Mondo celtico): «Là [...] i denti sono bianchi, le sopracciglia nere; la folla numerosa è il piacere degli occhi. Ogni gota ha il colore della digitale [síon[18].
3. Nella Táin Bó Cúalnge (‘La Razzia delle vacche di Cooley’) le tre Bodb che accompagnano gli eroi d’Ulster vengono così descritte (nella Versione del Book of Leinster):

Teora hialla ingnathacha go ro-examlacht ecaisc uasta. An cetna hialla dercc uile, an iall thanaise gilither gési, an tres iall duibhither fiaich. Teora badba beldercca impu luaitither fiamhain timchioll na teora roth [...].

«Tre bande strane con un aspetto straordinario. La prima banda era interamente rossa, la seconda era bianca quanto dei cigni, la terza era nera quanto dei corvi. Tre Bodb dalla bocca rossa le circondavano, ..?... rapide come le tre ruote attorno ad esse [...]» [19].

Bodb (‘cornacchia’) o Mórrígan (‘Grande Regina’) è la dea irlandese della guerra; in lei è rappresentato l’aspetto guerriero della Sovranità.
Secondo Ph. Jouët, che attribuisce alla Mórrígan un’origine cosmica, in quanto sarebbe la versione irlandese dell’Aurora indeuropea, nelle tre ruote vanno visti «i “tre cieli” d’origine, in movimento»: il cielo crepuscolare, rosso, prettamente aurorale, e quelli diurno e notturno, di cui la dea «accompagna il movimento» [20]. Secondo Joseph Vendryes però, le «tre ruote» (teora roth) vanno piuttosto intese come «tre macchine da guerra su ruote» (forse tre torri su ruote) [21].
4. Diarmaid ua Duibhne (Diarmaid Ó Duibhne), «l’uomo più amato d’Irlanda» («ciclo di Finn» o dei Fianna), ha riccioli bruni, gote rosse, denti bianchi: «an folt cas ciardubh 7 an dá ghruaidh chorcra choimhhdhearga [...] déad-bhán» [22].
5. La bellissima Deirdriu (Deirdre, Derdre) si invaghisce di Noísiu (Noíse, Naoise) perché questi ha nei capelli, sulle guance e sul corpo, i colori di un corvo, del sangue, della neve visti in precedenza in un giorno d’inverno (in Longes mac nUislenn, ‘Esilio dei figli di Uisliu’ – «ciclo eroico d’Ulster») [23].
6. Ne La storia di Peredur figlio di Evrawc (Historia Peredur vab Evrawc), Peredur ama una fanciulla dai capelli neri come i corvi o il giaietto, dalla carnagione bianca come la neve e dai pomelli delle guance rossi come il sangue [24].

A tali testimonianze si può aggiungere l’episodio della Storia di Peredur in cui il protagonista, nel castello abitato da cinque pulzelle, incontra la figlia del defunto conte, la più bella fanciulla che Peredur avesse mai visto: la sua pelle era «più bianca della farina più bianca», i capelli e le sopracciglia erano «più neri del giaietto», le guance «più rosse della cosa più rossa» o, come si legge nel manoscritto Peniarth 7, «più rosse della digitale»: «Deuvann goche on aoed ẏnẏ devrud cochach oẏdẏnt no fion» [25].
Questo motivo dei tre colori segno di somma beltà — il bianco della pelle (o dei denti), il nero dei capelli (e/o delle sopracciglia), il rosso delle gote (o delle labbra) —, è un «tema narrativo» che si ritrova anche in alcuni racconti folclorici [26], ad esempio nella storia Il figlio del Re d’Irlanda (The King of Ireland’s), raccolto da Douglas Hide [27], e, fuori dall’ambito celtico, nella fiaba di Biancaneve (Schneewittchen) dei fratelli Grimm. Un «tema narrativo» privo di «senso trifunzionale» [28].
Secondo Claude Sterckx infatti, «l’impiego cosciente del simbolismo funzionale dei colori nel mondo celtico» si riconosce soltanto nella sequenza dei tre martirii cristiani inclusa nell’Omelia di Cambrai [29], scritta in una lingua irlandese del VII secolo. Ecco la versione italiana del testo tradotto in francese dallo Studioso:
Ci sono tre forme di martirio che costituiscono una croce per l’uomo: il martirio bianco, il martirio blu e il martirio rosso.
Ecco cos’è il martirio bianco per l’uomo: quando abbandona per l’amore di Dio tutto ciò che egli ama sopportando digiuni e tribolazioni.
Ecco cos’è per lui il martirio blu [ind glasmartre]: quando rinuncia così ai suoi desideri e fa penitenza per il rimorso delle sue colpe.
Ecco cos’è per lui il martirio rosso: sopportare una croce o la morte per l’amore del Cristo, così come sopportarono gli apostoli insegnando la legge divina nelle persecuzioni dei malvagi.
Sterckx ritiene che i tre martirii corrispondano esattamente alle tre funzioni duméziliane, dato che il martirio bianco risulta «associato all’amore di Dio e si situa al livello del contatto con il divino» (1ª funzione: colore bianco), il rosso «è quello delle violenze fisiche e si riferisce al Cristo, il dio sanguinante e ferito del cristianesimo» (2ª funzione: colore rosso), il blu «è definito come il rigetto delle passioni fisiche e dei desideri carnali (fria thola)» (3ª funzione: «il meno nobile dei colori, il non-rosso») [30].

Nell’ambito germanico, si ritrova testimonianza dei tre colori fondamentali associati alla «tripartizione funzionale indeuropea», nella Rígsþula (Carme di Rígr), composizione mitologico-gnomica probabilmente del XIII secolo [31].
In tale opera poetica (mutila nella parte finale), si narra di come Rígr, ovverosia il dio Heimdallr («il dio bianco» [32]), generò i capostipiti delle tre «classi» della società dell’antica Scandinavia: Þræll (‘Schiavo’), Karl (‘Contadino libero’, il bóndi), Jarl (‘Nobile’). Eccone qui di seguito buona parte del testo, nella traduzione di Carlo Alberto Mastrelli (1951) [33].
Un tempo andò, si dice, per verdi vie, [v. 5]
un saggio Aso, potente e vecchio,
forte ed ardito, il viandante Rígr.
[Egli andò quindi nel mezzo della strada.]

Egli giunse ad una casa: la porta era aperta;
entrò dentro: il fuoco ardeva sul suolo; [v. 10]
là sedevano due vecchi sposi al focolare,
Ái [‘avo’] ed Edda [‘ava’], con dei vecchi cappucci.

[Vennero offerti a Rígr focaccia, minestra, vitello (vv. 13-20).]

Rígr dette loro dei buoni consigli,
poi si alzò per andare a dormire;
quindi si mise a giacere nel mezzo del letto
ed ai suoi lati aveva i due sposi.

Colà egli rimase per tre notti, [v. 25]
andò quindi nel mezzo della strada,
poi passarono nove mesi.

Edda generò un bambino, dalla pelle bruna [svartan],
essi lo lavarono e lo chiamarono Þræll.

Egli crebbe e molto prosperò;
la pelle delle sue mani era rugosa, [v. 30]
nodose le nocche,...
grosse le dita, orribile il volto,
curvo il dorso, sporgenti i calcagni.

[Þræll sposò Þír (schiava), dalla quale ebbe molti figli e figlie, da cui derivano le stirpi dei servi (vv. 35-56).]

Rígr andò poi per diritti sentieri;
egli giunse ad una casa: la porta era aperta;
entrò dentro: il fuoco ardeva sul suolo;
e due sposi sedevano intenti al lavoro. [v. 60]

Il marito digrossava del legno per il telaio;
la barba era ben tagliata, la chioma pettinata,
e la camicia attillata; una cassa era in terra.

La donna sedeva e svolgeva la conocchia;
agitava le braccia e preparava da tessere. [v. 65]
Era bene acconciata, aveva fermagli sul petto,
un fazzoletto al collo, un mantello sulle spalle.
Afi [‘nonno’] e Amma [‘nonna’] abitavano in quella casa.

[Vv. 69-73.]

[Rígr] si alzò da tavola per andare a dormire;
quindi si mise a giacere nel mezzo del letto, [v. 75]
ed ai suoi lati aveva i due sposi.

Colà egli rimase per tre notti;
andò quindi nel mezzo della strada,
poi passarono nove mesi.

Amma generò un figlio, lo lavarono con acqua, [v. 80]
lo chiamarono Karl, e la donna l’avvolse in fasce;
era bianco e rosa [rauðan ok rjóðan [34]], ed i suoi occhi erano vispi.

Egli crebbe e molto prosperò:
apprese a domare i buoi, a fare aratri,
a costruire case, a fabbricar granai, [v. 85]
a fare carri ed a tirare il vomero.

[Karl sposò Snør, nuora, dalla quale ebbe molti figli e figlie, da cui derivano le stirpi dei liberi contadini (vv. 87-99).]

Rígr andò poi per diritti sentieri: [v. 100]
giunse ad una casa: la porta volgeva a sud,
era accostata ed un anello stava nell’incavo.

Egli entrò dentro: il suolo era cosparso di paglia;
due sposi sedevano guardandosi negli occhi,
Faðir [‘padre’] e Móðir [‘madre’], e giocavano con le dita. [v. 105]

L’uomo era seduto ed intrecciava delle corde,
curvava archi ed appuntiva le frecce;
la donna, invece, considerava le sue braccia,
lisciava la stoffa, tendeva le maniche.

Portava sul capo una cuffia, una spilla sul petto; [v. 110]
lungo era lo strascico, azzurra la camicia;
bruni i sopraccigli, il petto più bianco,
il collo più candido di pura recente neve.

[Móðir servì a Rígr, su stoviglie di lusso, un pasto comprendente focaccia, carne e uccelli arrostiti e vino (vv. 114-125).]

Rígr dette loro dei buoni consigli,
poi si alzò per andare a dormire,
e quindi si mise a giacere nel mezzo del letto,
ed aveva ai suoi lati i due sposi.

Colà egli rimase per tre notti, [v. 130]
andò quindi nel mezzo della strada;
poi passarono nove mesi.

Un figlio generò Móðir, lo fasciò nella seta;
lo lavarono con acqua e lo chiamarono Jarl;
bionda era la sua chioma, bianche [bleikr] le guance, [v. 135]
acuti gli occhi come d’un serpentello.

Jarl crebbe colà in quella casa,
agitava lo scudo, tendeva corde,
curvava archi, appuntiva frecce,

scagliava dardi, brandiva lance, [v. 140]
montava a cavallo, aizzava i cani,
maneggiava la spada, si allenava al nuoto.

Là giunse Rígr venedo da un bosco,
Rígr che molto errò e gli insegnò le rune;
gli dette il suo nome e lo riconobbe come figlio, [v. 145]
poi gli offrì il possesso sulle sue terre,
sulle terre ereditate, ed antichi possedimenti.

[Jarl sposò Erna (attiva. vigorosa), figlia di Hersir (dignitario, capo), dalla quale ebbe molti figli maschi (vv. 148-173).]

Il giovane [ungr] Konr [‘figlio’, l’ultimogenito di Jarl] conosceva le rune,
rune della vita, rune della salute; [v. 175]
poi egli sapeva salvare gli uomini,
ottundere le lame, calmare i flutti.

Comprendeva gli uccelli, placava il fuoco,
addormiva il mare ed acquetava i dolori:
aveva la forza e il vigore di otto uomini. [v. 180]

Egli gareggiò nelle rune con Rígr Jarl:
lo giocava in astuzia e ne sapeva di più;
allora conseguì ed ottenne per sempre
il nome di Rígr e la conoscenza delle rune.

[Vv. 185-194 ...]
Quel che emerge nella Rígsþula con tutta evidenza, è che i tre colori funzionali – bianco, rosso, nero – sono assegnati rispettivamente ai «nobili», ai «liberi contadini» e ai «servi», attraverso espressioni indicanti il colorito dei tre diversi neonati, colori da considerare carichi di valore simbolico, giacché corrispondono alle tre funzioni e non a diverse particolarità pigmentali attribuibili agli individui appartenenti alle tre «classi» [35].
Rígr — come tutti gli studiosi riconoscono — risulta essere la forma norrenizzata del nome celtico del ‘re’: gallico -rix, rīgo-; antico irl. rí, gen. e acc. s. ríg (*x, *rīgos); gallese rhi ‘lord’ ≠ ‘king’ = brenin (ie. *rēĝs < *rēĝ- [*h3reĝ-] ‘orientare, dirigere’). Si può dunque supporre nel poeta della Rígsthula una conoscenza della società celtica, probabilmente irlandese.
Régis Boyer però ritiene tout court la Rígsþula di origine celtica: si tratterebbe di un testo dal «carattere fabbricato», di un’affabulation che «non è applicabile alla realtà scandinava, specialmente islandese», anche perché nell’Islanda indipendente non si sono mai avuti né jarlar né re [36]. Già Myles Dillon e Nora K. Chadwick avevano riconosciuto «un ambiente irlandese» all’origine del Carme [37]. E Jean Renaud, più di recente, ha rilevato due temi mutuati dalla letteratura celtica: il motivo dell’«ospitalità accompagnata dalla procreazione» (cfr. i testi irlandesi in cui si narra del dio Manannán) e quello dell’«arte di intorpidire gli uccelli» (praticata da Cú Chulainn e suo figlio) [38].

In Konr ungr si evidenzia poi un gioco di parole, una specie di pseudoetimologia, poiché il termine norreno per ‘re’ è konungr (germanico *kuningaz ‘discendente di nobile stirpe’, ‘persona di stirpe nobile’ o ‘colui che appartiene alla stirpe’, dal germ. *kunja(n) ‘stirpe’ < ie. *ĝen- ‘generare’ [39]). Pertanto il figlio del principe diventa il primo re, ricevendo doppiamente questo titolo: in quanto Rígr e in quanto Konr ungr > konungr.
Appaiono evidenti inoltre, nella Rígsþula, la figura trifunzionale del sovrano — da Rígr derivano tutte le classi sociali — e uno slittamento nella tripartizione. Infatti, là dove ci si aspetterebbe la classe sociale «sacerdotale» (che nel mondo germanico risulta assente) è collocata quella dei «nobili guerrieri». Ma in Konr ungr è manifesta la «sovranità magica» (la scienza delle rune e gli altri «saperi» elencati nei vv. 174-180), pur sempre appartenente alla prima funzione.
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[1] Cfr. G. R. Cardona (1985): 147-72 e (2006): 8, 97-103; S. Pinker (1997): pp. 53-4.

[2] Da tutte le indagini effettuate dopo la IIª Guerra Mondiale, risulta essere il blu il colore preferito da circa la metà della popolazione occidentale (seguito dal verde, con quasi il 20%, dal bianco e dal rosso, attorno al 10% delle preferenze).
Cfr. M. Pastoureau (1987): 9, 19-21, (1992): 10, 153-60, (2002): 14-6, 80-3, 170 e sgg.

[3] Secondo l’Ernout-Meillet la pianta sarebbe stata chiamata con il nome del ‘vetro’ per il suo colore vitreo (perché verdastra come il vetro fabbricato nell’antichità) [A. Ernout, A. Meillet (1985), s. v. uitrum].
L’inglese glass, tedesco Glas, ecc., ‘vetro, bicchiere, specchio, lente’, derivano dal termine germanico occidentale dell’ambra, *glasa- (cfr. la voce latinizzata glaesum, glēsum ‘ambra gialla’), riconducibile alla radice indeuropea *ĝhel-/*ghel-, *ĝhlē-, *ĝhlə- ‘brillare’ (la stessa del greco glaukós, dell’ingl. gold, di glastum). L’italiano guado è di origine germanica: deriverebbe da una voce longobarda *waid < germ. occidentale *waizda- (forse associabile etimologicamente al latino vitrum). Cfr. X. Delamarre (2008), s. v. glaston, glasson; J. Pokorny (2005), s. v. ĝhel-; P. Scardigli, T. Gervasi (1978), s. vv. glass, woad; F. Kluge (1989), s. vv. Glas, Waid; S. Bosco Coletsos (1993): 107; P. Scardigli (1987): 287; M. Cortelazzo, P. Zolli (1979-1988), s. v. guado.

[4] Cfr. M. Brusatin (1978): 393-4. Glastum­ — afferma con una certa imprecisione Brusatin — proviene «dalla radice celtica glas».
Giovanni Lido (secolo VI) riferisce che i russati, gli albati e i prasini venivano associati a Marte, Giove e Venere; cfr. J. H. Grisward (1985): 111 e G. Dumézil (1986): 218-23. Nell’Ernout-Meillet si ipotizza che l’aggettivo venetus ‘blu turchese’ derivasse dall’origine veneta o degli aurighi o delle loro vesti [A. Ernout, A. Meillet (1985), s. v. uenetus].

[5] Sui diversi colori nelle lingue indeuropee, cfr. A. Martinet (1987): 271-3; sul «simbolismo cromatico» — da ritenersi «un dato empirico dall’origine eterogenea e sistematizzato in un secondo tempo dai “pensatori” indeuropei» —, cfr. B. Sergent (1995): 436-9.

[6] J. Haudry (1985): 22, 31, 35.

[7] B. Sergent (1995): 437-8.

[8] Molte delle informazioni relative ai colori presso i Celti, le ho tratte da F. Le Roux, Ch.-J. Guyonvarc’h (1990): 146, F. Le Roux, Ch.-J. Guyonvarc’h (1991): 81-3, e da altre opere, specie, tra i dizionari indicati nelle Bibliografia: X. Delamarre (2008), F. Favereau (1997), A. Deshayes (2003), L. Fleuriot (1985), N. Ó Dónaill, T. de Bhaldraithe (1981), J. Vendryes, É. Bachellery, P.-Y. Lambert (1959-), H. M. Evans, W. O. Thomas (1989), A. Falileyev (2000), J. Pokorny (2005).

[9] K. McCone (2005): 51.

[10] Ma non il toponimo Vienna, ted. Wien, che non deriva affatto dal nome d’origine celtica Vindobona; si veda quanto detto in http://lucio-iuos.blogspot.com/2010/08/bologna-un-toponimo-di-origine-celtica.html. Cfr. anche J. Lacroix (2007): 39-41.

[11] *bhā-, *bhō-, *bhə- in J. Pokorny (2005): 104.

[12] K. McCone (2005): 138.

[13] Cfr. J. Lacroix (2003): 53, 180, 199.

[14] Cfr. supra la nota 3.
A *glaston risulta collegabile il toponimo inglese Glastonbury [in antico gallese, secondo la Vita di san Gildas, attribuita a Caradoc di Llancarvan: Ynis-gutrin, ‘l’isola di vetro’ — cfr. J. Marx (1996): 308]: Glastingaea (704), ‘isola della gente di Glaston’, Glastingbury (725), ‘fortezza della gente che vive a Glaston’. Il toponimo celtico Glaston potrebbe significare ‘luogo del guado’; cfr. A. D. Mills (1993): 144.

[15] X. Delamarre (2008): 223; A. Ernout, A. Meillet (1985), s. v. mulleus.

[16] J. Lacroix (2003): 198.

[17] Ph. Jouët (1993): 65.

[18] Ph. Jouët (1993): 180-1; Ch.-J. Guyonvarc’h (1983): 249.
Si nomina correttamente Midir, invece, in Ph. Jouët (2007): 268.

[19] Ph. Jouët (1993): 197; F. Le Roux, Ch.-J. Guyonvarc’h (1983): 152-3.
Nella sua traduzione della TáinLa Razzia des vaches de Cooley (1994) —, alle p. 249-50 Guyonvarc’h ha così reso il passo sopra riportato: «Ci sono tre sciami strani [di uccelli] sopra di loro, con un aspetto incomparabile. Il primo sciame è tutto rosso; il secondo sciame: sono bianchi quanto dei cigni; il terzo sciame è nero quanto dei corvi. Le tre Bodb dalla bocca rossa li circondano, rapide quanto lepri, tutt’attorno alle tre ruote [...]».
Sopravvivenze del «sistema colorato tripartito» ha individuato J. H. Grisward (1985) nel testo arturiano del XIII secolo intitolato Queste del Saint Graal, ove si racconta di una nave meravigliosa ancorata in un’isola selvaggia. I protagonisti dell’episodio — Galaad, Boorz e Perceval­ — vi scoprono un letto sormontato da una specie di baldacchino, costituito di tre fusi: «Il primo fuso era più bianco della neve fresca, il secondo rosso come gocce di sangue, il terzo verde come lo smeraldo». Si tratta di fusi fatti fabbricare dalla moglie del re Salomone, utilizzando appunto il legno di tre alberi di colore diverso, tutti discendenza dell’Albero della Vita, il quale ai tempi di cui si narra nella Genesi, aveva assunto in successione il bianco («disobbedienza empia»), il verde (concepimento di Abele), il rosso (uccisione di Abele).

[20] Cfr. anche Ph. Jouët (2007): 192-3, 205, 323.

[21] «Études Celtiques», XXXI, 1996, p. 136, nota 49.

[22] Ph. Jouët (1993): 251, nota 181.
Per i denti è usato il sopra indicato aggettivo irlandese significante ‘bianco’ (ma nei testi medievali anche ‘brillante, puro, vero’): bán < ie. *bhā-/*bhē- ‘brillare’.

[23] Ph. Jouët (1993): 251, nota 181.

[24] Ph. Jouët (1993): 251, nota 181; P.-Y. Lambert (1993): 255-7.

[25] P.-Y. Lambert (1993): 251, 395 (nota 19); J. Gw. Evans, R. M. Jones (1973): 296 (col. 615).
Il sostantivo pl. a. cimr. fionou ‘roses; purple fox-gloves’, medio cimr. f(f)ion, attuale ffion ‘red flowers, foxgloves, roses’, corrisponde all’a. irl. síon ‘digitale’; tutte queste voci sono state accostate al lat. spionia ‘sorta di vite’ [A. Falileyev (2000): 57; H. M. Evans, W. O. Thomas (1989): 225; J. Vendryes (1974): 115].
Cfr. anche Ph. Jouët (2007): 33, ove l’Autore rileva che «lo schema dei “tre colori”» si ritrova nei tratti fisici di alcuni esseri mitici del «leggendario celtico»: i «capelli neri “come il corvo”», la «pelle “più bianca della neve”», e le «gote rosse “come la digitale”».

[26] J. MacKillop (1998), s. vv. black, Deirdre; Ph. Jouët (1993): 251, nota 181.

[27] D. Hyde (1991): 33-46. La storia inizia così:
C’era in Irlanda molto tempo fa il figlio di un re. Uscì prendendo con sé il fucile e il cane. Fuori c’era la neve. Uccise un corvo. Il corvo cadde sulla neve. Mai aveva visto niente di più bianco di quella neve o di più nero della testa di quel corvo o di più rosso di quel sangue che usciva a fiotti.
Si impose la geis [proibizione, ingiunzione] e l’obbligo per un anno di non mangiare due pasti alla stessa mensa e di non dormire due notti nella stessa casa, finché non avesse trovato una donna i cui capelli fossero neri come la testa del corvo, la pelle bianca come la neve e le guance rosse come il sangue.
Quel racconto si legge anche in: Fate e spiriti d’Irlanda, a cura di Henry Glassie, traduzione dall’inglese di Maria Magrini, Milano, 1987, Arcana, pp. 63-75 [Irish Folktales, edited by Henry Glassie, London, 1988, Penguin Books, pp. 39-47, 339-40].

[28] P.-Y. Lambert (1993): 395 (nota 28); C. Sterckx (1997): 841.

[29] Conservata nel «manoscritto N° 619 della Biblioteca Municipale di Cambrai» [C. Sterckx (1997): 841].

[30] C. Sterckx (1997): 841-2. Testo dell’omelia e analisi sono stati riproposti di recente, senza sostanziali modifiche, in C. Sterckx (2009): 50-1.

[31] Cfr. R. Simek, H. Palsson (1987): 294-5. Il testo norreno è riportato all’indirizzo web:
http://www.cybersamurai.net/Mythology/nordic_gods/LegendsSagas/Edda/PoeticEdda/Icelandic/Rigsthula.htm.

[32] G. Chiesa Isnardi (1991): 469.

[33] C. Alberto Mastrelli (1982), pp. 263-9 (Rígsthula) e 495-500 (commento).
Nella traduzione del Carme di Rígr proposta da Mastrelli, ho modificato alcuni nomi propri, avvicinandoli il più possibile alla forma norrena, e ho inserito — tra parentesi quadre e in corsivo — qualche breve sintesi e nota esplicativa.
Ho utilizzato di G. Chiesa Isnardi (1991) il paragrafo Origine delle classi sociali, alle pp. 66-8 e 80-1 (note), cui si possono aggiungere le pp. 469-70 — e, sui colori nel mondo nordico (in particolare il bianco, il rosso, il blu, il grigio, il nero), 468-73, 491-2. Ho consultato inoltre: G. Dumézil (1987): 209-221 [e (1983): 227]; J. Haudry (1987): 9-10, 89-93.

[34] «Rosso di capelli e di carnagione», secondo quanto riporta Dumézil.

[35] F. Le Roux, Ch.-J. Guyonvarc’h (1991): 82; B. Sergent (1995): 438-9.
Sergent constata che «non si possono attribuire a Jarl i caratteri di una senescenza precoce», per cui ha «dei capelli “biondo pallido” — non bianchi, ma il più vicino possibile al bianco». Qui però allo Studioso sembra sfuggire come il «livello simbolico trifunzionale» si legga nei tre diversi coloriti di Þræll, Karl, Jarl.

[36] Régis Boyer (2001): 48, 182.

[37] M. Dillon, N. K. Chadwick, Ch.-J. Guyonvarc’h, F. Le Roux (2001): 178.

[38] J. Renaud (1992): 195 (e note 1 e 2).

[39] P. Scardigli, T. Gervasi (1978), s. v. king; M. G. Saibene (1996): 150-1.