Gallico *iuos "Taxus baccata"


«Il tasso (ivin in bretone) è l'albero dell'immortalità perché sempreverde e di una longevità straordinaria. I cimiteri bretoni senza tassi non sono veri cimiteri. Ha anche la fama di essere il più antico degli alberi. La mazza del dio druido Daghda era di tasso così come la sua ruota. Si scrivevano incantesimi in ogham su legno di tasso. Quest'albero ha anche un simbolismo militare: si facevano scudi e aste di lancia con il suo legno.»

Tratto da: Divi Kervella, Emblèmes et symboles des Bretons et des Celtes, Coop Breizh, Spézet 1998, p. 17.



Il “tasso sanguinante” di Nevern 

<br><br>Il “tasso sanguinante” di Nevern <br><br>


Il “tasso sanguinante” (stillante linfa rossa) del cimitero della chiesa di Saint Brynach a Nevern, Pembrokeshire (Galles).







giovedì 27 gennaio 2011

Le kannerezed-noz. 10ª parte



Approfondimenti: le difese e i rimedi

Da tutte le credenze e i racconti emerge che è innanzi tutto necessario — ecco la “morale” — essere radicati nella propria cultura, conoscere la propria terra e le tradizioni, ascoltare gli anziani e seguirne gli insegnamenti e i consigli: solo i forestieri, vale a dire, a seconda dei casi, chi non è del luogo o non è bretone (o per lo meno è di eventuali zone della Bretagna in cui non esiste la credenza nelle lavandaie notturne) o chi non segue tradizioni e ammonimenti, si lascia facilmente ingannare.

In Bretagna, per premunirsi contre le anime in pena (l’Anaon) che frequentano le strade di notte, si deve in primo luogo evitare di uscir di casa dopo il tramonto, in particolar modo tra le ventidue e le due («ore inopportune»), e se poi risulta necessario — per «cercare un prete, un medico o una levatrice» — si deve essere in due (e non di più).
Inoltre — e si capisce che se si è in due ci si affida alla sorte — per rendere innocui i morti malintenzionati bisogna andar per via in tre, e tutti e tre battezzati, oppure portar con sé un proprio attrezzo («gli strumenti di lavoro sono sacri»), magari l’efficace carsprenn (karzhprenn), «piccola forca di legno per pulire il vomere dell’aratro» [1].

Come ben si sa, in Souvestre il protagonista, che si è messo in strada da solo, per sfuggire allo stritolamento si serve (sia pure per breve tempo) dell’espediente della torcitura nello stesso senso, espediente a lui noto, e la cui conoscenza, stando a quanto afferma Le Men nel passo riportato sopra [→ 2ª parte], dovrebbe esser stata diffusa in Bretagna un po’ dappertutto assieme alle credenze sulle «lavandaie della notte» [2].
Solo in altre due testimonianze, si accenna a quel (relativamente) efficace rimedio: ne Les lavandiéres de nuit de Pont-ar-Goazcan (Luzel [→ 2ª parte]), e nelle credenze raccolte a La Roche-Derrien (P. Sébillot, da N. Quellien [→ 5ª parte]); in un caso invece — ovvero, come s’è visto [→ 8ª parte], nel testo delle «Lavandières» tratto dalI’opera di Elvire de Cerny — si prospetta, per chi voglia cercare di sfuggire alla stretta delle «lavandaie» girando il lenzuolo nel loro stesso senso, una morte per bastonatura sotto i colpi delle mestole, mentre nell’esempio tratto da Boucher de Perthes [→ 5ª parte], è la lavandaia che gira il lenzuolo nello stesso senso della sua vittima fino a reciderne le mani.
Per lo più vengono suggerite a prevenzione le già note misure: non lavare dopo il tramonto (Cadic, testimonianze raccolte a Plourin), tenersi lontani dai luoghi frequentati dalle «lavandaie» (Cadic, Le Men, de Cerny, testimonianze raccolte a Plourin e Commana); oppure, in loro presenza, altri accorgimenti: non disturbarle o provocarle (de Cerny, E. Berthou), non scappare (ammettendo possa funzionare: de Cerny), stare in silenzio (Cadic, E. Berthou).
Si aggiungano poi i casi in cui dalle «lavandières de nuit» le possibili vittime si allontanano senza subire alcun danno (P. Sébillot [→ e 8ª parte]) — e per questi dovrebbero valere, come minimo, le precauzioni generali. E ancora quello, riferito da Cadic, di Jeannic C., sulla quale, proprio perché madre di molti figli, nulla possono le «lavandaie». Questa circostanza — non un rimedio tradizionale di natura in qualche modo magica, bensì un vantaggio oggetto di credenza superstiziosa cristiana — che d’altra parte Jeannic sembra ignorare, non ci permette certo di supporre che dopo il tramonto nel Morbihan alcune donne sposate e con prole numerosa potessero recarsi, in caso di necessità, al lavatoio senza temere alcuna disgrazia dalle kannerezed, appunto perché consapevoli della propria condizione. Infatti anche per queste madri contava quanto a tale proposito rileva giudiziosamente lo stesso Cadic, cioè che non è bene avvicinarsi alle acque frequentate dalle «lavandaie»; né si deve dimenticare che negli altri testi non compare quell’annullamento del potere di fronte a famiglia numerosa, ovvero a una realtà alla quale corrisponde in negativo la soppressione di figli indesiderati, delitto di cui potrebbero per l’appunto essersi macchiate, in una precedente versione della leggenda — come s’è già notato [→ 6ª parte] —, le particolari «lavandaie» dalle mani sanguinolenti apparse a Jeannic.

Riguardo comunque all’espediente del torcere nello stesso senso, al di là dell’evidenza — è ovvio che per rendere vano un torcimento si debba girare nel medesimo verso di chi tiene l’altro capo —, la precauzione potrebbe forse essere accostata alle diverse misure atte a far fronte o a prevenire unazione o un avvenimento negativo proprio attraverso un’azione magica o rituale (uguale e) contraria, cioè eseguita all’incontrario, a rovescio, o che pone qualcosa nel senso opposto rispetto alla norma. Si veda ad esempio, fra le difese relative al parto riportate da Paul Sébillot in Riti precristiani nel folklore europeo, l’uso di mettere le calze e la gonna a rovescio da parte delle levatrici della zona di Liegi, per respingere gli spiriti maligni che volessero impedir loro di raggiungere una partoriente. Oppure, nella stessa occasione, l’usanza bavarese della scopa e della forca incrociate dietro la porta di casa con i manici verso il pavimento, allo scopo di tener lontane le streghe. E ancora, in Bretagna, gli abiti rovesciati per difendersi dai folletti (lutins) che si possono incontrare all’esterno, e in Galles, per tenere lontani sia gli spiriti malvagi che le streghe, l’espediente della biancheria intima messa a rovescio, riferito da Jonathan Ceredig Davies in Folk-lore of West and Mid-Wales [3].

E proprio tra le precauzioni tradizionali che il marito fa prendere a Fanta per impedire alla maouès-noz di entrare nella loro abitazione, vi è quella di rovesciare la scopa; questa però non va messa dietro la porta, bensì semplicemente riposta in un angolo della casa.
Poiché i tre rimedi suggeriti dal marito sono diffusi nel folclore dei Paesi celtici, e in altri d’Europa, è opportuno qui di seguito soffermarsi su di essi, per analizzarli e confrontarli con almeno una parte — quella di cui sono a conoscenza — delle altre tradizioni, ancora vive per lo più nell’Ottocento.
Innanzi tutto va ricordato che la triplicità è caratteristica di tanti racconti tradizionali [4], e nella leggenda in esame riguarda per l’appunto il motivo folclorico dei tre oggetti magici che ricevono ordini da un essere fatato, un morto, una strega o un mago.

A. Rassettare il focolare, appendere il treppiede.
Il treppiede appeso al suo chiodo, e quindi non solo tolto dal focolare, ma anche adeguatamente sistemato, e al tempo stesso inamovibile, si ritrova, a quanto mi risulta, nella sola tradizione narrativa bretone. «Il treppiede» — infatti — «ha un posto rilevante nelle leggende bretoni; è un utensile che ha in qualche modo un valore o una forza magica» [5]. Tale potere potrebbe derivare dal suo metallo, il ferro (un elemento dal simbolismo ambivalente), ottima protezione contro fate e fantasmi in Irlanda, nel Galles e nella stessa Bretagna. Ma forse ancor di più dall’appartenere al focolare, il «luogo sacro» della casa [6].
Quando non serviva più, il treppiede doveva essere tolto dal fuoco: Pa chomm ann trebe war ann tân, / Ann Anaon paour a ve e poan («Quando resta il treppiede sul fuoco, / le povere anime sono in pena»). Bisognava avvertire i morti del fatto che scotta, ponendovi sopra un tizzone acceso, giacché essi che senton sempre freddo, hanno l’abitudine di sedersi al focolare per riscaldarsi.
Nel Morbihan invece era in uso di togliere il treppiede, perché, qualora un morto si fosse seduto sopra, si avrebbe avuto in famiglia un lutto nell’anno in corso [7]. (Rammento che il racconto Celle qui lavait la nuit è stato registrato nel Finistère.)
Pulire e mettere in ordine il focolare fa parte inoltre delle buone consuetudini apprezzate anche da altri esseri soprannaturali, di cui dirò nei prossimi paragrafi.

B. Spazzare la casa, mettere la scopa a testa in giù.
Innanzi tutto, cominciando dalla Bretagna, va ricordata una testimonianza riferita da Le Braz, quella di un curato di Ploumilliau (Côtes-du-Nord), secondo la quale non è bene scopare la casa dopo il tramonto, perché si rischierebbe di spazzar via con la polvere le anime che hanno il permesso di tornare nella loro vecchia abitazione. Come conseguenza, si rischierebbe di essere svegliati ogni momento di soprassalto dalle anime dei defunti.
Pure P. Sébillot ricorda che in Bassa Bretagna si evitava di spazzare la casa dopo il tramonto, per non ferire o spingere fuori con la polvere le anime dei morti. Anche a Spa si doveva evitare, nel periodo del ritorno dei morti, di spazzare e lavare il pavimento di camere e cucina per non scacciare le anime cha tornano sulla terra [8].
La casa, dunque, andava pulita prima del tramonto, come si faceva in Irlanda, in vista della visita dei morti la notte di Ognissanti; quando — riferisce Curtin — si spazzavano le case, si faceva un buon fuoco e si dicevano le preghiere [9].
Ancora oggi in Irlanda c’è chi pensa si debba lasciare la cucina pulita, calda e con acqua fresca a disposizione, poiché una casa in disordine e sporca attira di notte non solo morti ma anche esseri fatati pronti a procurar guai. Questa estensione all’Otherworld, è attestata nella stessa Inghilterra del 1600, ove si credeva che le fate gradissero case spazzate, cibi, acqua e asciugamani [10].
Tali credenze sono molto antiche ed erano vive in diverse parti d’Europa: nel XIV secolo, sia nell’Ariège che nell’Italia del Nord si affermava che i morti gradissero le case pulite [11].
Si tratta in questi casi di gesti di rispetto, di buona accoglienza, nei confronti dei morti o spiriti fatati, ma anche, più che non di misure apotropaiche per tenere lontani spiriti di per sé malevoli, di atteggiamenti atti a ottenere il favore o perlomeno ad evitare eventuali danni provocati da anime o spiriti maldisposti dalla pigrizia, dalla negligenza, soprattutto delle donne di casa. Nello spazzare di Fanta vedrei piuttosto l’eliminazione di polvere nella quale potrebbero annidarsi forze pericolose, anime o esseri soprannaturali malefici, forse già presenti, oppure il correre ai ripari da parte di chi, pur in gran ritardo — la casa va pulita di giorno —, ha necessità di avere tutto in ordine come si deve, anche allo scopo di poter definitivamente riporre la scopa e quindi passare al gesto difensivo successivo: capovolgere (nel caso specifico, la scopa stessa).
Questo, lo si ritrova in tutta evidenza, tanto più perché ripetuto per vari oggetti collocati/usati in cucina nel racconto scozzese La focaccina d’avena (oatcake), che qui di seguito riassumo.
Morag, la donna più pigra dell’isola di Skye, attira i folletti con una scodella di porridge e panna per farsi aiutare nelle faccende domestiche. Entrati in casa, quegli esseri si danno un gran daffare ma in cambio pretendono che si cuociano in continuazione per loro delle focaccine d’avena. Morag, disperata, vuole liberarsene, si fa dire pertanto come fare dalla donna più vecchia del vicino villaggio: avrebbe dovuto gridare, aprendo l’uscio: «Correte, correte! La vostra casa sta bruciando!», e poi sprangare la porta e rovesciare ogni oggetto usato dai folletti. La donna segue interamente questi suggerimenti, e quindi i folletti, ritornati subito dopo, invano cercano di farsi aprire dalla scopa, dall’arcolaio (utilizzato da alcuni), da ogni oggetto della cucina. Solo una focaccina — evidentemente ancora diritta ­— obbedisce alI’ingiunzione, però Morag riesce a sbriciolarla prima che abbia raggiunto la porta. Subito dopo sopraggiunge il marito e i folletti fuggono «con un rumore simile a quello che fa il vento nel camino» [12].
Abbiamo in questo racconto il criterio di capovolgere degli oggetti che, rovesciando l’ordine, creando un “disordine funzionale”, li fissa in uno stato di completa inutilizzabilità, tanto da renderli incapaci di obbedire ai voleri dei folletti. Lo stesso effetto viene raggiunto — ma questa volta nei confronti di una «lavandière de nuit» che, come s’è visto, è simile a un essere demoniaco tanto da essere chiamata «strega» [→ e 6ª parte] — da Marianna Kerbernès (in Luzel), capovolgendo o cambiando di posto ogni cosa toccata/usata dall’ospite maligna: per prime la rocca e l’arcolaio — che ritroviamo nella storia di Morag e (v. infra) in altri racconti in cui pure gli esseri soprannaturali filano —, perché quella strega è prima di tutto una filatrice prodigiosa; e subito dopo la pentola del bucato, la cui acqua, rovesciata, spegne quasi del tutto i tizzoni sul focolare; non si tratta dunque di mettere in ordine quest’ultimo né di coprire le braci, ma di estinguere il fuoco con l’acqua cosicché i tizzi bagnati siano impossibilitati ad aprire la porta. Va osservato inoltre che anche in questo racconto non è presente la triplicità del rimedio — gli oggetti cui la strega si rivolge sono infatti cinque —, sostituita dal principio della totalità [13]: le cinque cose sono tutto ciò che l’ospite ha toccato e usato, sebbene in realtà ve ne siano delle altre, a iniziar dal filo.

Ritornando alla scopa, va detto che come rimedio contro il soprannaturale era usata già nella bassa latinità, allo scopo di tener lontane le larvae, così come riferisce Giovanni Battista Bronzini, il quale però su quest’usanza non aggiunge alcun altra informazione. Forse già allora si riteneva che certi esseri malefici, avendo davanti una scopa, fossero indotti a contare i rami di saggina e, specialmente perdendo più volte il conto, si lasciassero sorprendere dalle prime luci dell’alba. È questa in realtà la credenza relativa alle streghe che un tempo era viva in diverse zone d’Italia: in Piemonte, nel Veneto (scopa attraverso la porta), a Roma (scopa rovesciata davanti all’uscio), nel Meridione [14]. Mentre nel Connaught — si veda il prossimo paragrafo — con la scopa dietro la porta si tenevano lontani gli esseri fatati.

C. Gettare l’acqua dei piedi sulla soglia.
È questo un importante motivo, a quanto pare di antica origine — come si vedrà più sotto —, caratteristico di tante credenze e narrativa tradizionale dei Paesi celtici (anche se, al momento attuale, non conosco alcuna testimonianza proveniente dal Galles).
In Irlanda si riteneva che dopo il tramonto, l’Otherworld — vale a dire gli esseri fatati — che si trova all’esterno, potesse entrare in casa se non si fosse buttata via l’acqua sporca (= disordine); però in segno di rispetto, prima di gettarla fuori bisognava avvisarli. In entrambi i casi, comportandosi così si evitava che capitassero guai. Tali regole valevano anche nei confronti delle «povere anime» dei morti.
Nel racconto L’acqua dei piedi (The Feet Water [15]), in cui si narra una vicenda accaduta nella contea di Limerick «a long time ago», una vedova e sua figlia andarono a letto senza aver gettato fuori l’acqua. Qualcuno bussò alla porta e chiese che gli venisse aperta, prima alla chiave — invano, perché era «legata al piede del letto della vedova» — e poi alI’acqua. Questa, rottosi il recipiente, si mise a scorrere per la cucina, e la porta così si aprì: entrarono tre uomini e tre donne, si sistemarono e cominciarono a filare. Dopo due ore la ragazza uscì di casa, con il finto scopo di andare ad attingere acqua al pozzo per offrir Ioro del tè. Si recò invece da una donna saggia che le insegnò quanto avrebbe dovuto fare per liberarsi degli intrusi. Riempito dunque il secchio, la ragazza gridò dal cancello: «Aiuto! Sliabh na mBan va a fuoco!» I sei allora fuggirono via verso la montagna. La ragazza gettò fuori il recipiente rotto e sprangò la porta. Così quelli, che non erano di questo mondo, ritornati dopo un po’, invano chiesero di nuovo alla chiave e all’acqua di aprire la porta [16].
In Le Braz sono menzionati, e corredati di osservazioni comparative, alcuni racconti irlandesi in cui compare il motivo dell’acqua dei piedi:
– in un racconto raccolto da J. Curtin un revenant non può fare danni nelle case in cui c’è dell’acqua pulita, ma entra in una dove l’acqua sporca non è stata gettata fuori; i revenants sembra siano come le fate, che hanno orrore del disordine e della sporcizia;
– in un altra storia, raccolta da Patrick Kennedy, si trova un episodio simile, in cui compaiono l’acqua dei piedi, la corda dell’arcolaio, la scopa, il carbone di torba. Si può qui fare il confronto con il modo con cui nel Connaught si tengono lontane le fate: si mette la scopa dietro la porta, si copre il fuoco, si getta nel letamaio l’acqua dei piedi (J. Cooke) [17].
Questo rimedio, per la sua “triplicità”, è quello che presenta la maggiore corrispondenza con l’analogo della leggenda bretone di Fanta. Da rilevare la scopa collocata dietro la porta.
Quadruplice è invece l’espediente messo in atto, questa volta contro delle streghe, in un racconto riferito da Yeats, Le donne cornute (secondo il narratore il fatto narrato risaliva a cinquecento anni prima). Eccone una sintesi.
Una ricca signora si attarda a cardare la lana, mentre i suoi famigliari stanno dormendo. Dodici streghe cornute, una dopo l’altra, esercitando il loro potere si fanno aprire, e si pongono attorno al fuoco a cardare, filare, avvolgere e tessere il filo. Una strega ordina di preparar loro una focaccia; poiché non riesce a trovare alcun recipiente per portare dal pozzo l’acqua necessaria, la signora, su invito delle streghe, prende il setaccio. Lo Spirito del Pozzo le suggerisce di foderarlo con muschio e argilla e di gridare tre volte al lato nord della casa: «La montagna delle donne [Sliabh-na-mban] di Fenian e il cielo sopra di essa sono in fiamme». Fatto ciò e fuggite le streghe, sempre seguendo i consigli della Spirito, la signora sparge sulla soglia l’acqua dei piedi del figlio, mette un pezzo della focaccia, impastata dalle streghe con il sangue dei suoi famigliari, in bocca a ciascuno di questi, pone la stoffa tessuta dalle streghe per metà dentro una cassapanca con lucchetto, e per finire sbarra la porta con una grossa trave messa di traverso. Così le streghe non riescono a farsi aprire dall’acqua, né dalla porta né dalla focaccia [18].
La quadruplicità alla fine si risolve nella triplicità: le streghe si rivolgono infatti a tre oggetti: l’acqua, la porta e la focaccia. Quest’ultima richiama alla mente la leggenda scozzese La focaccina d’avena: su una focaccia ridotta in briciole o in pezzetti, folletti e streghe non hanno alcun potere.
In un terzo racconto (tratto dalla raccolta di Curtin) menzionato in Le Braz, sono presenti i motivi del sangue umano mescolato a farina (in queste caso non da una strega bensì da un morto), del morto portato sulle spalle, della mancanza di acqua pulita o benedetta — che equivale alla presenza di acqua sporca. Vediamone la trama.
Una ragazza, entrata di notte in un cimitero, è costretta a portare un morto sulle sue spalle in una casa priva di acqua pulita o benedetta. Qui il morto sgozza tre ragazzi e prepara una pappa con il loro sangue e farina d’avena. La ragazza, obbligata a mangiarne, riesce a evitarlo e nasconde la sua parte in un fazzoletto. Riportato indietro il morto alla sua tomba, ritorna nella casa e fa resuscitare i tre giovani mettendo Ioro in bocca la pappa messa via [19].
Anche al folclore bretone appartiene il motivo dei “morti portati sulle spalle”: in una leggenda, una ragazza trasporta il fratello da un cimitero, in cui era stato deposto contro le sue ultime volontà, a quello richiesto; nel Morbihan esisteva una credenza su un tipo di revenants che si fanno portare o caricano sulle loro spalle dei vivi [20].
Va sottolineato ulteriormente come in queste tradizioni celtiche tre sono le categorie di esseri soprannaturali che si oppongono pericolosamente agli uomini: morti ritornanti, esseri fatati e streghe. Tuttavia prevalgono di gran lunga le prime due.
I motivi più importanti — anche alla luce di quanto dirò subito dopo — sono quelli attestati più anticamente: l’acqua sporca dei piedi e il morto caricato sulle spalle.
Già negli Otia Imperialia (III, 86) di Gervasio di Tilbury compare il primo associato ai fantasmi notturni, nocturna fantasmata: una madre ritrova il proprio bimbo, lattante, nella pozzanghera fangosa dell’acqua del lavaggio dei piedi: «ipsum [infantem] in uolutabro aque que de ablutione pedum serotina effusa fuerat reperit» [21].
Ma i due motivi sono presenti nelle «Avventure di Nera» (Echtra Nerai), racconto irlandese di cui possediamo una copia risalente al XIV secolo, ma che dovrebbe essere ben più antico (forse dell’VIII secolo, in ogni modo d’origine precristiana, secondo Alwyn e Brinley Rees) [22].
La storia inizia con una proposta di Ailill, re del Connaught e marito di Medb, fatta al suo seguito nel forte di Cruachan, una notte di Samain: chi fosse riuscito a mettere un laccio al piede di uno o l’altro (nechtar) dei prigionieri impiccati il giorno prima, avrebbe ricevuto una ricompensa di suo gradimento.
Tutti provarono, ma solo Nera dimostrò il coraggio necessario in quella notte orribile nella quale compaiono i dèmoni. Nera tentò tre volte di legare con un vimine il piede dell’impiccato, ma senza riuscirvi; fu allora il morto stesso a suggerire come fare, ma andato a buon porto il tentativo, pretese di essere trasportato sulle spalle fino alla casa più vicina per poter placare quella sete che lo tormentava dal momento del suo supplizio.
Giunti alla prima casa, la videro circondata da un lago di fuoco; il morto non volle entrare sostenendo che non c’era l’acqua cercata né fuoco «sans provision» — come traduce Françoise Le Roux — o «well covered» — secondo i Rees (e «couvert» per Le Braz).
Proseguirono dunque fino alla seconda casa, che era invece circondata da un lago d’acqua; neanche quella andava bene perché sprovvista di un recipiente per lavarsi o fare il bagno e di un secchio d’acqua sporca.
Nella terza abitazione il prigioniero trovò quanto desiderava: recipienti per lavarsi e fare il bagno contenenti acqua da bere e un secchio d’acqua sporca. Egli bevve da entrambi i recipienti e gettò l’ultimo sorso in faccia agli abitanti della casa, provocandone così la morte. «Non è bene» — è detto alla fine dell’episodio — «dopo quel fatto avere recipienti per fare il bagno e lavarsi, o del fuoco senza provvista, o un secchio d’acqua sporca in una casa dopo essersi addormentati».
Nera riportò l’impiccato al luogo dell’esecuzione e ritornò a Cruachan. Il forte però gli apparve incendiato dai nemici, gli abitanti del síd, con i quali entrò in rapporti fino a sposarne una donna da cui ebbe un figlio. Gli avvenimenti si susseguono — ne tralascio una buona parte —; alla fine Nera, ritornato dalla sua gente, ebbe finalmente la ricompensa: una spada con l’elsa dal pomolo d’oro. Ma rimase nel síd, da cui tornerà il giorno del Giudizio.
In realtà non si tratta di una storia pienamente comprensibile. Anche dell’episodio del morto trasportato sulle spalle ci sfugge parecchio, principalmente la causa per cui i due prigionieri sono stati impiccati.
Françoise Le Roux e Christian-J. Guyonvarc’h ritengono si debba pensare a una cerimonia di impiccagione rituale, a un sacrificio incruento (senza spargimento di sangue e senz’uso di armi) e quindi sacerdotale, in cui la vittima era votata a Ogmios, dio appunto dei legami. Nell’episodio dunque sarebbero contenute ancora alcune tracce di un rito precristiano, di un tipo di sacrificio umano effettuato in occasione di una grande festa annuale (Samain).
D’altra parte — rilevano nelle loro opere i due autori — sono rari i racconti celtici in cui compaia l’impiccagione, probabilmente a motivo della cristianizzazione che ha cancellato anche dalla letteratura buona parte degli elementi tradizionali. Inoltre lo stesso termine irlandese usato per l’impiccagione è crocad, un evidente prestito dal latino: da crux sono derivati nelle lingue celtiche termini designanti sia la ‘crocifissione’ sia l’‘impiccagione’ [23].
Le Braz, nella Introduction, nota che nel racconto di Nera vi è una certa confusione tra i morti e le fate, poiché sono queste che in genere nel folclore irlandese si dimostrano nemiche della sporcizia e spietate verso chi non getta via l’acqua sporca [24].
Anche Alwyn e Brinley Rees parlano di un rituale relativo a una grande festa annuale, quella di Hallowe’en, quando gli uomini entrano in rapporto con l’Otherworld. Gli Autori pongono in relazione le «Avventure di Nera» con un tipo di racconto irlandese moderno di cui si conoscevano circa settanta anni fa ben 39 varianti, tutte esaminate dal Professor J. H. Delargy. In queste il protagonista, un giovane inviato a prendere un oggetto perduto in un determinato luogo, incontra il Diavolo e lo accompagna fino a una casa e poi un’altra, nelle quali non può entrare se sono circondate da un lago formato dalI’acqua dei piedi, oppure se questa è all’interno, o ancora se il fuoco è stato smorzato e un muro di fuoco protettivo circonda l’abitazione, se vi è dell’acqua benedetta, ecc. Nella terza casa il Diavolo può entrare perché vi trova una coppia che litiga o senza figli o appena sposata.
Le precauzioni che tengono al di fuori il soprannaturale, per i Rees appaiono in contrasto con l’abitudine di preparare la casa per il ritorno dei defunti nella notte di Hallowe’en, quando si spazza, si lasciano il fuoco acceso e cibo e acqua per gli ospiti. La cosa si spiegherebbe con il fatto che le misure precauzionali tengono lontani tutti gli esseri soprannaturali, pertanto ad Hallowe’en bisogna correre dei rischi se si vuole mantenere i contatti con i morti benevoli [25].


[1] A. Le Braz (1990): t. II, pp. 24, 203-5 (e 426, nota 1); P.-Y. Sébillot (1998): 213; Y. Brekilien (1994): 227; J. Chevalier, A. Gheerbrant (1988), s. v. spettro; D. Kervella, E. Seure-Le Bihan (2001): s. v. Karzhprenn.
Sul karzhprenn (o bazh an arar, bac’h an arér) come potente talismano o spauracchio contro i korrigans, cfr. P. Sébillot (1968a): 162-3, P.-Y. Sébillot (1998): 270, e il racconto Les korils de Plaudren (i korils sono korrigans delle lande) [É. Souvestre (2000): 223-5].
Come si legge in Le Braz e P. Sébillot [→ 5ª parte], anche portare in chiesa un bambino per il battesimo vanifica i poteri delle «lavandaie della notte» [A. Le Braz (1990): t. I, p. 333 (nota 1); P. Sébillot (1968): 429].
Nel Galles ci si difendeva dagli spiriti e dalle streghe con un pezzo di legno, un rametto a forma di “V” o un ramo di pren cerdinen (sorbo degli uccellatori) [sul sorbo: É. Mozzani (1995): 1661-2; sul sorbo selvatico (ingl. rowan): K. Briggs (1985): 222, 229]. Nel Carmarthenshire, alla vigilia del 1º maggio si tenevano lontane le streghe dalle case mettendone sopra la porta dei rami [J. C. Davies (1992): 188, 240-2; W. Howells (1991): 178].

[2] Anche Elvire de Cerny ritiene che le «lavandaie della notte» fossero conosciute in tutta la Bretagna [J. Berthou (1993): 55].

[3] P. Sébillot (1990): 21 [e P. Sébillot (1968a): 163]; P.-Y. Sébillot (1998): 270; J. C. Davies (1992): 189. Cfr. anche H. Hiller (1993) s. vv. Rovescio, Scopa, Streghe, e S. Curletto (1990), soprattutto alle pp. 80-89.
«Rivoltare gli abiti» — in particolare la giacca o la camicia da notte — risulta essere un’ottima «protezione contro gli esseri fatati», specie pixies, pigsies (Somerset e Devon), piskies e spriggans (Cornovaglia) [K. Briggs (1985): 216-7, 221, 253-4; G. Agrati, M. L. Magini (1995): 169-70].
Paul Barber usa il termine widdershins (‘in senso antiorario’) per indicare quel «comune fenomeno folclorico» consistente nella «pratica di invertire la direzione di qualcosa per conquistare l’accesso al mondo degli spiriti», chiamato anche «rovesciamento rituale», in relazione a morti pericolosi collocati in posizione prona, a gemelli di sesso diverso e nati di sabato che mettendosi «mutandoni e camicie al rovescio» possono vedere i vampiri, e alla lettura al contrario della Messa Nera [P. Barber (1994): 84, 109, 264].

[4] «La legge della triplicazione è tipica della fiaba europea» [G. L. Beccaria (1987): 35-6].

[5] A. Le Braz (1990): t. lI, p. 237 (nota 1).

[6] Sul ferro: A. Le Braz (1990): t. l, pp. XXXIII, 256; t. II, pp. 205, 237 (nota 1); J. Chevalier, A. Gheerbrant (1988): 442-3 [ove si accenna anche ai druidi che, per tagliare il vischio, non dovevano usare un falcetto di ferro, bensì d’oro]; cfr. anche A. M. Di Nola (1993): 15-8, J. Cooper (1993): 63-4, H. Hiller (1993), s. v. Ferro.
Nel Galles, si teneva in mano un coltello per proteggersi dai fantasmi e dagli spiriti, ci si serviva di chiodi (anche da tenere tra il pavimento e il piede), ferri di cavallo e ferri vecchi contro le streghe [J. C. Davies (1992): 188, 239­-40]. In Cornovaglia, «per tenere lontano streghe e folletti» si doveva incrociare «attizzatoio e molle» o inchiodare «alla porta di casa, del granaio o della stalla un ferro di cavallo trovato per strada» [G. Agrati, M. L. Magini (1995): 402].
Sul focolare cfr. P. Sébillot (1990): 139-40, P. Sébillot (1968d): 70-1, 99 e J. Cooper (1993): 24.

[7] A. Le Braz (1990): t. II, pp. 22, 423; P.-Y. Sébillot (1998): 25, 212.
Si credeva, in Ille-et-Vilaine, che il treppiede lasciato sul focolare, dopo aver spento il fuoco prima di coricarsi, facesse «soffrire le anime del Purgatorio», mentre in Bassa Bretagna si riteneva che le mettesse in pena. Inoltre si diceva in Alta Bretagna che quando il treppiede si presenta capovolto, il diavolo è dentro la casa [P. Sébillot (1968a): 137, 139].
Il treppiede poi (o una marmitta) veniva rovesciato a protezione dal fulmine, in molte regioni d’Europa [P. Sébillot (1990): 187; P. Sébillot (1968a): 105]. Cfr. anche É. Mozzani (1995): 1738-9.

[8] A. Le Braz (1990): t. Il, p. 23; P. Sébillot (1968a): 136; P. Sébillot (1990): 125, 142; P.-Y. Sébillot (1998): 212; É. Mozzani (1995): s. v. balai.

[9] A. Le Braz (1990): t. Il, p. 75 (nota 2).

[10] P. Narváez (1991): 32, 318; K. Thomas (1985): 685-7.
In Cornovaglia, per essere amici dei piskey bisogna tenere «la pietra del focolare ben spazzata e con sopra un catino di pura acqua di fonte perché possano lavarvi i loro bambini» [G. Agrati, M. L. Magini (1995): 402].

[11] Nel 1319 nell’Ariège, un tale Arnaud Gélis detto Boutellier, armier (intermediario tra morti e vivi) di Pamiers e di mestiere sacrestano, riteneva che i morti entrassero volentieri nelle case pulite [C. Ginzburg (1989): 78; E. Le Roy Ladurie (1991): 425].
Nel 1390, Pierina de’ Bugatis, processata dall’Inquisizione milanese in quanto appartenente alla «società» di Madona Horiente (identificata con quella di Diana), dichiarò che la dea impartiva la propria benedizione alle case che la notte venivan trovate ben spazzate e ordinate [C. Ginzburg (1974): 65 e (1989): 69].

[12] L. Carrara (1989): 63-7.
Simile a La focaccina d’avena, per alcuni elementi e motivi, è il racconto scozzese «La brava massaia e le fatiche notturne», ove gli esseri fatati chiedono invano di aprire la porta a filatoio, conocchia, cardi della lana, telaio, acqua della follatura (cose da loro utilizzate e rovesciate o messe fuori uso dalla massaia stessa) e, infine, a una focaccina d’avena, che la donna riesce a bloccare in tempo [G. Agrati, M. L. Magini (1994): 467-71].
Una levatrice è costretta dalle fate a cuocere un’infinità di focaccine (bannocks) nel racconto La levatrice (The Midwife), in K. Briggs (1984): 213 e K. M. Briggs (1991b): I, pp. 324-5.

[13] Il numero “cinque” simboleggerebbe la “totalità” in alcune tradizioni celtiche [cfr. J. Chevalier, A. Gheerbrant (1988), s. v. cinque, e C. Sterckx (2009): 49].

[14] G. B. Bronzini (1992): 64-5. P. Jorio, G. Burzio (1988): 54: «porre sulla soglia di casa un manipolo di fuscelli in forma di croce o una scopa, la quale fàscina la strega che, distratta dalla conta degli steli di saggina, è sorpresa dall’alba e costretta a fuggire». Cfr. anche M. Milani (1994): 22, 81-2 e D. Spada (1989): 293.
Un’analoga funzione apotropaica avevano anche i semi gettati dietro una bara, allo scopo di impedire al morto di ritornare tra i vivi, misura che Jean Cooper ritiene risalga ad un antico rituale funebre, senza però fornire precisazioni su Iuoghi, epoche, modalità, fonti [J. Cooper (1993): 30]. Sui semi gettati dietro una bara o dentro una tomba, per tenere occupato un «revenant» (= un «non-morto»), cfr. P. Barber (1994): 82-3.
A Sopraselva (Canton Ticino) si crede che, mettendo una scodella piena di miglio sulla maniglia della porta, si costringa il Derscialet («folletto incubo») che per entrare ne abbia riversato il contenuto sul pavimento, a rimettere tutto a posto [D. Spada (1989): 103]. Anche in questo caso, si tiene occupato per un bel po’ un essere soprannaturale in una attività a cui è spinto da una specie di impulso ossessivo per l’ordine.
Contro i poulpicans (altro nome dei korrigans), in Bassa Bretagna «si pone all’interno della casa un vaso pieno di semi di miglio», così quegli esseri trascorrono tutta la notte a contare i semi, e non tornano più. In Ille-et-Vilaine si impiegano invece i piselli [P.-Y. Sébillot (1998): 269].

[15] Il racconto, riprodotto in H. Glassie (1988): 174-5 — e tradotto in italiano in H. Glassie (1987): 189-91 — è tratto da: Kevin Danaher, Folktales of the Irish Countryside, Cork, 1967, Mercier Press (pp. 127-9).
Nel racconto L’aria è piena di loro (The air is full of them) non gettar fuori l’acqua dei piedi «è cosa che porta guai [brings some harm] — a meno che non si getti del fuoco nel recipiente che contiene l’acqua» [H. Glassie (1987): 187-8; H. Glassie (1988): 173-4 (testimonianza tratta da: Lady Augusta Gregory, Visions and Beliefs in the West of Ireland, 1970, Oxford University Press, pp. 211-2; 1ª ediz. 1920)].

[16] P. Narváez (1991): 201-2. H. Glassie (1987): 187-91 e (1988): 173-5.
Cfr. anche P. Sébillot (1990): 142 (nella stessa pagina Sébillot riporta che anche in Portogallo si devono avvertire le anime prima di gettar via l’acqua dei piedi, però non in strada, perché altrimenti qualche malintenzionato potrebbe servirsene per compiere malefici).

[17] A. Le Braz (1990): t. Il, p. 238 (nota 1).
Sulle misure precauzionali di vuotare i recipienti e versare l’acqua, in relazione ai morti, qualche dato di un certo interesse è presente in P. Barber (1994): 116, 260-2. Sulla scopa posta attraverso il vano della porta per identificare una strega, nel Dorset, cfr. S. Roud (2003): 49-50.

[18] W. B. Yeats (1981): 197-9.

[19] A. Le Braz (1990): t. l, p. 327.

[20] A. Le Braz (1990): t. lI, pp. 139-40 (nota 2). La leggenda è confrontabile con la storia irlandese di Tadhg O Cathain, obbligato a portare un cadavere da un cimitero all’altro fino alla fossa prevista [storia pubblicata in W. B. Yeats (1981): 25-37].

[21] Gervasio di Tilbury (2009): 148-9; Cl. Lecouteux, Ph. Marcq (1990): 28.

[22] Il racconto potrebbe risalire al X-XI sec. secondo Bernhard Maier [B. Maier (1994): 107].

[23] F. Le Roux (1983-1984): 95-109; Chr.-J. Guyonvarc’h (1983-1984): 75-6; F. Le Roux, Chr.-J. Guyonvarc’h (1986): 68, 412; F. Le Roux, Chr.-J. Guyonvarc’h (1995): 73-4; Chr.-J. Guyonvarc’h (2005): 215-22. Cfr. anche Ph. Jouët (2007): 277-81.
Sulle testimonianze archeologiche di eventuali sacrifici umani (persone strangolate, garrottate e con la gola tagliata) cfr. M. J. Green (1993): 28-9, 128, 144-5, e M. J. Green (1992): 46-7, 132, 184.

[24] A. Le Braz (1990): t. l, pp. XXX-XXXI.

[25] A. Rees, B. Rees (1990): 298-303; A. Rees, B. Rees (2000): 248-52.

lunedì 17 gennaio 2011

Le kannerezed-noz. 9ª parte



Approfondimenti: le insidie

In Le Men — come si è visto [→ 8ª parte] — le lavandaie approfittano della sconsideratezza di alcuni passanti che si fermano ad aiutarle; non vien detto che attirino qualcuno con lusinghe o un aspetto piacevole, incantevole: appaiono invece puntare risolute al loro scopo, non — come ci si aspetterebbe, e come afferma Cambry (e con lui Cadic) [1] — invitando, bensi ingiungendo («en leur ordonnant» [2]) di dar loro quell’aiuto che si rivelerà esiziale, come sanno quanti dopo il tramonto si tengono alla larga dai lavatoi.
Impongono dunque, quasi credessero di tenere ormai in proprio potere il malcapitato viandante, già prima che questi abbia afferrato il suo capo del lenzuolo. Chi d’altra parte in Bretagna, se non uno sprovveduto privo di buon senso o un forestiero, oppure un tipo alla Wilherm Postik, darebbe una mano a una donna che di notte lava le lenzuola — e non della semplice biancheria, delle camicie, come fa Fanta Lezoualc’h in Le Braz — e chiede aiuto a uno sconosciuto, trovandosi da sola in evidente difficoltà, e perciò contando — e qui sta la sostanza dell’insidia — sulla vanità altrui? Come infatti rifiutare a una donna un favore, specialmente se si ha l’occasione di mostrare la propria forza e abilità? (In realtà di giorno un uomo può tranquillamente aiutare delle lavandaie a strizzare lenzuola, come minimo per gentilezza, anche quando vede bene che esse possono farcela da sole dandosi reciprocamente una mano.)
Chi poi, se non un incapace (ma con le migliori intenzioni di rendersi utile) o uno come Wilherm Postik — che sappia quale rischio sta correndo, ma agisca temerariamente —, continuerebbe a torcere il lenzuolo nello stesso senso della lavandaia? Tutti gli altri, sprovveduti o forestieri, dopo qualche istante si troverebbero con le braccia rotte.

In Souvestre sono presenti più lavandaie, che specialmente se giovani, dovrebbero sapersela cavare da sole, senza chiedere aiuto ai viandanti. Come già si è visto [→ e 7ª parte], le kannerezed-noz sono numerose perché appartengono al tempo stesso a una particolare categoria di revenants e all’insieme delle anime dei defunti, che nella notte tra i Santi e i Morti riempiono le vie. Hanno poi a che fare non con un forestiero, ma con un nativo del luogo, anzi per alcune con un loro parente, che, empio e sfrontato peccatore, per un bel po’ si burla di loro, sicuro di poter evitare lo schiacciamento adottando le precauzioni che ha «appreso dai suoi vecchi».
Nel fare delle kannerezed inoltre, non compare alcun tipo di ammaliamento, di lusinga; esse non provocano, bensì per la seconda volta annunciano la morte a Wilherm, il quale invece continua a non dar importanza a segni e voci di avvertimento. La loro richiesta di aiuto non ha niente di ingannevole, proprio perché sappiamo dal racconto stesso che Wilherm è avvisato (in tutti i sensi): è l’espediente specifico per recargli una morte preannunciata e una dannazione meritata.

Alquanto palese, al contrario, ai nostri occhi, l’insidia macchinata dalla maouès-noz contro Fanta Lezoualc’h, che pur non ignorando l’esistenza delle lavandières de nuit, si è lasciata convincere ad accettare l’aiuto di una di esse, credendola una donna mossa da spirito caritatevole. Significativo il lasciar momentaneamente cadere l’offerta di aiuto formulata dalla maouez — «[...] ­sono dispostissima ad aiutarti se sei d’accordo» —, per poi riprenderla (e passando al pronome allocutorio vous) quando la stanchezza, la fame e la convinzione della durezza della propria vita si fanno in Fanta ancor più insopportabili:
– Avete una vita dura, Fanta Lezoualc’h?
– Potete dirlo. Soprattutto in questo momento. Dall’Angelus del mattino fino al calar della notte, nei campi. E deve andare avanti così fino alla fine di agosto. Vedete, manca poco alle dieci, e non ho ancora cenato.
In Luzel la «lavandière de nuit», come s’è visto [→ 4ª parte], si presenta come una donna sconosciuta che presumibilmente ha fatto tardi, e perciò si rivolge a chi è ancora alzato — Marianna Kerbernès — per sapere che ore sono:
Passando davanti a casa vostra, ho visto della luce, e siccome non so che ora sia esattamente, sebbene mi sembri debba essere quasi mezzanotte, ho voluto entrare, per chiedere l’ora.
Come ben sappiamo, questa è una scusa: una volta entrata nell’abitazione, informatasi (o ricevuta conferma) sulle abitudini insolite di Marianna e la presenza di marito e figli, la sconosciuta, agendo al tempo stesso sulla predilezione e sull’amor proprio della sua vittima, la induce facilmente a gareggiare quasi con lei nel filare: «e vedrete come sgobbo», dice infatti l’ospite. E così pure più avanti, terminata la filatura, Marianna, proprio perché «desiderosa di approfittare della buona volontà di una lavoratrice tanto abile» (quale si era dimostrata quella straordinaria filatrice), si lascia ulteriormente irretire. Lei infatti non sa, non si rende conto che ha a che fare con una specie di strega in grado di comandare a tutte le cose adoperate o toccate dalle proprie mani; non sa dunque che ogni nuova attività svolta dentro casa dall’ospite procura a questa un maggior potere da usare contro di lei e i suoi farmigliari.


[1] J. Berthou (1993): 9 (Cambry) e 58 (Cadic).
Cambry soggiunge: «[les Laveuses] vous portent à la charité», che si può tradurre con ‘vi inducono all’altruismo’.

[2] F. Le Roux, Ch.-J. Guyonvarc’h (1983): 79.

domenica 9 gennaio 2011

Le kannerezed-noz. 8ª parte


Approfondimenti: le vittime

In Le Men [→ 2ª parte] le vittime sono individui poco avisés, poco «accorti»: non si insospettiscono — così sembra [1] — per il fatto che una donna lavi delle lenzuola da sola e di notte, cioè nell’impossibilità di torcerle o comunque di strizzarle a sufficienza, in condizioni di scarsa luce e in ogni case anomale, anche ai fini di una buona asciugatura — per non parlare dei rischi che si corrono all’esterno durante le ore notturne, quando si può incontrare qualche «essere della notte» (di notte, tra l’altro, ricorda A. Le Braz, la terra appartiene ai morti [2]). Le vittime non sanno poi, o non capiscono, che l’unico rimedio per salvarsi da una «lavandaia della notte» consiste nel torcere il lenzuolo nello stesso senso.
È inoltre esplicito che accortezza significa — e non solo per un bretone — ascoltare i consigli, gli ammonimenti di chi più sa, e, nel caso specifico, cercare, di notte, di passare il più lontano possibile da fiumi, canali e lavatoi: «si eviti perciò con cura di sera la vicinanza dei luoghi in cui abitualmente viene lavata la biancheria». È vero che le lavandaie «vanno loro stesse incontro» ai viandanti, però si presume lo facciano nelle vicinanze dei loro lavatoi [3].
Le Men non accenna al sesso delle vittime. Però forse quelle lavandaie tendevano a rivolgersi piuttosto a maschi che da soli percorrevano tratti di via prossimi ai lavatoi. Si devono infatti prendere in considerazione due ordini di elementi determinanti: le situazioni e motivazioni di chi doveva o poteva permettersi di girare di notte da solo in un contesto socio-culturale tradizionale quale quello bretone (e non solo) del XIX secolo (si vedano lo stesso caso limite di Wilherm Postik in Souvestre, le particolari — spesso simili — circostanze riguardanti le “vittime” degli altri racconti, e quanto dirò più avanti [→ e 10ª parte]); la necessità, per una lavandaia, di chiedere aiuto preferibilmente a maschi in quanto più forti, soprattutto se da sola, cosi come la testimonianza di Le Men lascia intendere là dove viene usato il singolare: la lavandaia «finisce per stancarsi, vedendo che il suo lavoro non procede, e lascia andare la sua vittima».

Per quanto riguarda Les Lavandières de nuit, l’informatore di Souvestre si sofferma ampiamente sull’indole e la condotta di Wilherm Postik, contrapponendo questi ai Bretoni che «fanno il loro dovere di cristiani», soprattutto nel «mese nero», novembre [4], il che fa risaltare maggiormente il «contesto morale» [5] cristiano illustrato dal racconto stesso.
Wilherm non è un «vero cristiano», non pensa ai suoi cari scomparsi, anzi. Il giorno dei Morti infatti, invece di lasciare «la tovaglia sulla tavola e il fuoco acceso», invece di recarsi in chiesa a «pregare per i defunti», raggiunge all’osteria del paese vicino «marinai senza religione e ragazze senza onore».
È degno figlio di suo padre, che «aveva abbandonato questo mondo senza aver ricevuto l’assoluzione». Dopo le morti, avvenute tutte nello stesso anno, di madre, sorelle e moglie — che per il narratore sono «avvertimenti» inviati da Dio —­; dopo il «pubblico ammonimento» da parte del curato, invece di cambiar vita finisce per allontanarsi del tutto dalla chiesa e dalla fede.
Non c’è in lui alcun rispetto né timore per le anime che, la vigilia dei Defunti, di notte riempiono le strade: colpisce con il bastone ai lati delle vie gli arbusti, le siepi — frequentati, come ben sa, dagli spiriti — e sceglie, per tornarsene a casa, proprio la via più breve, quella da evitarsi. Non ascolta le voci di avvertimento che — secondo il narratore — gli inviano, con i loro suoni, la banderuola del castello, l’acqua della cascata, il vento tra i rami. Né si scompone affatto di fronte alle spettro — riconoscibilissimo — della Morte.
Anche soffermandosi con le lavandaie — e comportandosi scherzosamente come soleva con (forse) tutte le donne — sa con chi ha a che fare, ma, privo di paura e consapevole dell’insidia, si prende gioco di loro: non gli possono far nulla, perché lui conosce il mezzo per evitare di rimanere «stritolato»: basta torcere il lenzuolo nelle stesso senso. Quando però, ancora probabilmente con «il cuore caldo di vino», si vede circondato da parecchie kannerezed-noz, tra cui le sue parenti, che gli gridano: «Mille sventure a chi lascia i suoi bruciare all’inferno!»; quando a queste fanno eco «innumerevoli voci», Wilherm, fino a poco prima troppo sicuro del fatto suo, viene preso da terrore — che altro potrebbe accadere ad uno scellerato, ad un uomo sfrontato ed empio? — e dimentica il rimedio messo in atto fino a quel momento.

Diversa la situazione in Le Braz. La vittima è una donna che, lodevolmente, fa del suo meglio per incrementare le finanze familiari senza trascurare le faccende di casa. Però, pur essendo a conoscenza dell’esistenza delle maouezed-noz, ingenuamente cade nell’insidia tesale da una di esse, la quale usa parole rassicuranti e benevole così da vincere ogni timore, sospetto e titubanza.
Dal pericolo la libererà il marito, molto più accorto («plus savant qu’elle»), il quale conosce une scongiuro adatto.
Anche in questo caso dunque la vittima si dimostra poco avveduta, priva di malizia. Tuttavia, a parziale giustificazione di Fanta, va ricordato che la non riconosciuta maouès-noz si presenta come un’altra lavandaia, presumibilmente anch’essa oberata di lavoro, pertanto costretta a fare e a stendere il bucate al chiaro di luna: situazione, questa, con tutta probabilità eccezionale o per lo meno limitata a pochi casi (da questi sono nate forse le credenze sulle lavandières de nuit?) e appunto a biancheria personale, non da letto.
Non si parla di lenzuoli infatti: sono dunque esclusi da questo racconto anche i sudari, ed infatti qui le circostanze e il comportamento della «lavandaia della notte» sono ben diversi, come si avrà modo di precisare più avanti [→ 9ª parte].

Anche Marianna Kerbernès, nel racconto riportato da Luzel, è una madre di famiglia economa: la vendita del filo le consente di accrescere le entrate familiari, per cui, se sta alzata anche tutta la notte, non è solo perché le piace filare. Non per niente vuole «approfittare della buona volontà di una lavoratrice tanto abile», quale si dimostra la sua ospite.
Ma proprio per questo Marianna appare ancor meno avveduta di Fanta e per certi aspetti ingenua. Non si accorge di aver a che fare con una «lavandaia della notte», nonostante questa sia una vecchia dall’aspetto tanto singolare da provocarle un brivido, e fili alla velocità di una macchina a vapore. Non la assale alcun sospetto: né prima, quando la sconosciuta — ancora in strada non molto prima di mezzanotte — con una scusa cerca di entrare in casa e poi di sapere chi c’è, né dopo, quando al lavatoio avrebbe potuto inferire intuitivamente che chi lava accanto a lei è, appunto, una «lavandière de nuit».
Per fortuna ha sposato un uomo più accorto, grazie al quale riesce a liberarsi e a impedire i malefici di quella specie di strega che risulta essere la «lavandaia» di quel racconto. Marianna da quell’esperienza impara — e con lei dovrebbero aver imparato quanti hanno ascoltato la sua disavventura — che non si deve rimanere a lavorare la sera oltre una certa ora.

In Cadic la protagonista della storia, Jeannic C. di Brennilis, è un’altra madre di famiglia costretta a lavare della biancheria di sabato dopo il tramonto, perché probabilmente, come Fanta, già occupata durante il giorno in altre faticose attività. Lo scopo è lo stesso: far sì che i propri famigliari possano indossare delle vesti decenti, pulite, la mattina dopo — ma in effetti Cadic ritrae Jeannic mentre lava «draps et couettes» (lenzuola e coperte).
Jeannic pare più consapevole di Fanta: ha rischiato seriamente andando al fiume di sera, ha evidentemente commesso una grave imprudenza; in presenza delle «lavandaie» è rimasta zitta, per la paura più che non per saggezza (e per sua fortuna le kannerezed non le hanno rivolto alcuna parola); ma almeno sa che le «lavandaie della notte» — perché le ha riconosciute, e senza tanta difficoltà, visto l’aspetto della prima e il loro apparire improvviso — non devono essere disturbate in alcun modo, nemmeno alzandosi, tanto meno fuggendo via: si rischia di esser torti come panni.
Che fare allora, una volta commessa l’imprudenza? Si può provare a rimanere in silenzio, nella speranza che prima o poi (prima dell ‘alba?) Ie kannerezed scompaiano? Jeannic non ce la fa a resistere: corre via il più in fretta possibile, pur sapendo che le lavandaie la posson raggiungere, e forse senza pensare o essere al corrente del fatto che la sua condizione di madre di molti figli la pone al riparo dai supplizi inflitti da quegli esseri.

Chi sono le vittime nelle altre testimonianze contenute nel catalogo redatto da Jean Berthou e nelle pagine di Paul Sébillot [6]? Si tratta quasi sempre di persone quantomeno poco prudenti, che si attardano la sera.
In Elvire de Cerny sono uomini e donne che non evitano i luoghi frequentati dalle lavandières de nuit, le disturbano o, peggio, le sfidano, le provocano fischiando. Allora sono costretti a torcere le lenzuola delle «lavandaie» (probabilmente i sudari di queste; come quelli lavati dalle «lavandières» di Dinan). Non vale però torcere nella stesso senso, perché così facendo le vittime finiscono per essere bastonate a morte dalle mestole delle «lavandaie» inferocite; né è possibile scappare: chi ci prova viene raggiunto e, obbligato a torcere, viene stritolato in tutto il suo corpo come una corda ritorta.
Può inoltre — stando a quanto riferisce la de Cerny — rimanere vittima delle «lavandaie della notte» anche chi porta lungo i canali una chiatta: le imbarcazioni all’alaggio vengono fatte girare tome trottole, i conduttori e i cavalli vanno a fondo.
In P. Sébillot la protagonista della prima delle due storie riportate da J. Berthou (Les Lavandières de Nuit) è una lavandaia di Dinan, «la mère Paillasse», che rincasa attorno all’una di notte dopo aver fatto visita a una partoriente. Dimostra anch’essa poca avvedutezza giacché passa, a quell’ora, accanto al lavatoio dei Noes Gourdais, ove si rivolge a una «lavandaia» e l’aiuta a raccogliere la biancheria, senza insospettirsi — mentre in una lavandaia di mestiere ci si aspetterebbe un’adeguata conoscenza delle credenze locali e un conseguente comportamento.
Nel secondo racconto (La Lavandière des Noes Gourdais) è una domestica a giornata mattiniera a incontrare allo stesso lavatoio una «laveuse de l’autre monde», come la chiama P. Sébillot. Ancora una volta abbiamo a che fare con una donna che per mancanza di tempo è costretta a lavare della biancheria in ore sconvenienti — nel caso specifico prima dell’alba.
Tutte e due le disavventure terminano, se si può dir così, con un lieto fine: la «lavandaia», che rimane zitta e volgendosi fa vedere la propria testa di morto, non insegue le due donne, non fa loro alcun male; si comporta in effetti ben diversamente — la differenza va evidenziata — dai «cattivi geni, nemici giurati degli uomini», quali sono le «lavandières de nuit» descritte dalla de Cerny, nel cui novero l’Autrice senza dubbio comprendeva anche quelle che lavavano il loro sudario sotto le mura di Dinan, e quindi a poca distanza dai Noes Gourdais [7].
In Erwan Berthou le vittime sono quanti disturbano le kannerezed passando accanto a loro, poiché non rimangono in perfetto silenzio: a causa di ciò devono aiutarle nella torcitura della biancheria, e così si ritrovano con le braccia torte. La stessa fine fanno, in Jules Gros (nel Trésor du Breton parlé), coloro i quali le aiutano a strizzare le loro lenzuola.

Per il presente, è stato lo stesso Jean Berthou a raccogliere nel Léon qualche traccia della leggenda delle «lavandaie». Alcune signore di Plourin («Madame M...t») e di Commana («Mesdames R...x») — si tratta sempre di ricordi femminili — ­rammentano che quando erano bambine, i genitori, nel proibire di recarsi al lavatoio a giocare, le spaventavano con la minaccia dell’arrivo delle «Lavandières de la Nuit»; se così suscitavano loro delle paure infantili, era perché miravano a un unico fine: evitare che alle proprie figlie accadesse una disgrazia, innanzi tutto che annegassero.
Le bambine di Commana temevano, anzi «erano terrorizzate all’idea» di venir stritolate (broyées) da quegli spettri femminili che evidentemente — secondo quanto ci riferisce Berthou — la gente del luogo riteneva fossero le «lavandaie della notte». In questa caso dunque, se consideriamo I’imprudenza di chi non ascolta i consigli e le tristi conseguenze, ci troviamo di fronte a “tipiche” (eventuali) vittime delle kannerezed-noz. Quel che è diverso invece è l’età, e con questa la situazione: si desume che cinquanta-settanta anni fa, per lo meno a Commana, le «lavandaie» fossero ormai diventate una specie di spauracchio infantile; e inoltre, da quanto ci dice Berthou, si può pensare che la loro comparsa fosse temuta solo dalle bambine ed anche di giorno (d’altronde, quant’era consistente il rischio che delle bambine, da sole, si allontanassero da casa dopo il tramonto per andare a giocare al lavatoio?).
A Plourin invece — soggiunge Jean Berthou — si tendeva piuttosto a burlarsi delle donne che si affrettavano a raggiungere il lavatoio all’imbrunire, dicendo loro che: «A quella che se ne va al lavatoio a quest’ora, le Lavandaie delle Notte verranno tra poco a prestare manforte».
Qual è in effetti il significato di queste parole? Non dobbiamo forse anche qui arguire — in questo caso specifico dall’intento scherzoso, canzonatorio — che all’esistenza delle kannerezed-noz e al rischio di esserne vittima a Plourin già almeno due generazioni fa, non credeva più nessuno che non fosse ancora bambino o ormai vecchio [8]?

Negli esempi registrati da P. Sébillot, si riscontrano, in buona sostanza, quattro tipi di «lavandaie».
Al primo gruppo appartengono quelle che non pare si rivolgano ai viandanti per nuocer loro (le madri infanticide d’Ille-et-Vilaine; le donne che «hanno violato il riposo domenicale»; le donne che lavano un sudario sporco; la levatrice del lavatoio del castello del Plessix-Pillet; la donna annegatasi a Calorguen).
Vi sono poi le «lavandaie» la cui «apparizione presagisce un decesso» (le madri che lavano le ossa di bimbi morti senza battesimo, nei dintorni di Dinan, oltre alla lavandaia de L’intersigne de «l’étang»).
Il terzo tipo è costituito dalle «lavandaie» che invitano i viandanti a proseguire (quelle dei ponti presso Bécherel e Tinténiac, oltre a quella del «doué des Noes Gourdais»).
Il gruppo più numeroso comprende invece le «lavandaie» malvagie, alle cui vittime fanno torcere la biancheria e mozzano le mani (vittime della cannerez-nooz), spezzano gli arti (giovani passanti che attorno alla mezzanotte rispondono ai loro lazzi), avvolgono intorno un sudario (testimonianza relativa a La Roche-Derrien). A queste bisogna aggiungere — oltre a quelle delle leggende più rilevanti — anche, forse, le «lavandaie» di Bassa Bretagna la cui biancheria «contiene talvolta un neonato», e senz’altro, sia quelle che non hanno potere su chi ha partecipato ad un battesimo (la donna di Landéda), sia le lavandaie notturne che lungo le rive di fiumi e canali dei dintorni di Dinan facevano affondare le imbarcazioni, sia l’epilettica presso il ponte di Kergoet, la cui vittima (ancora una volta un passante) viene però trascinata nell’acqua — e inoltre il Lavous de nuit, che non ha alcun «potere sugli uomini che portano su di sé un oggetto benedetto».
Vi sono infine le fate dell’Alta Bretagna, bendisposte verso gli esseri umani, che appartengono ad una categoria di «lavandaie» diversa dalle kannerezed-noz vere e proprie.
In più della metà dei casi (sei o sette) ricordati da P. Sébillot, nei quali compaiono delle effettive vittime — persone cui le «lavandaie» apportano, o potrebbero apportare, un grave danno, e non solo tanto spavento —, queste sono dei semplici passanti o viandanti (senza specificazione di genere, ma presumibilmente più uomini che donne), negli altri si tratta di donne e madri di famiglia (tre casi) e di giovani uomini (due).


[1] A dire il vero, non si dovrebbero pretendere dalle credenze e dai racconti popolari quel controllo, quella congruenza e coerenza, quella consapevolezza che caratterizzano le opere letterarie: tanta logica, tanti ragionamenti potrebbero apparire fuori luogo; "spaccare un capello in quattro” può risultare eccessivo, inutile, anche tenendo conto dell’intervento (“abbellimenti”, aggiustamenti e altre modifiche) dei raccoglitori, che non si sa se in qualche punto abbiano lasciato o eliminato le eventuali imperfezioni e contraddizioni. Solo se avessimo più versioni e varianti, trascritte fedelmente, di uno stesso racconto, potremmo stabilire da chi dipenda ciò che per noi risulta essere un’incongruenza o un elemento aggiunto, o quanto vada attribuito al racconto in sé e quanto al modo di raccontare dello storyteller.
Ad ogni modo, segnalare, quando ci sono, incongruenze, lacune o contaminazioni e cercare di capirle non mi pare deformi di per sé la sostanza folclorica dei racconti, quel nucleo che ne rende affascinante la lettura. In fondo, il nostro obiettivo è capire, e per raggiungerlo è necessario chiarire il più possibile ogni elemento di una tradizione, sia ciò che è “irrazionale” sia quanto è “ragionevole” e concretamente riferito all’esperienza quotidiana, visibile e tangibile.

[2] A. Le Braz (1990): t. II, p. 24.

[3] F. Le Roux, Ch.-J. Guyonvarc’h (1983): 79.

[4] In bretone miz-du o semplicemente Du ‘Nero’ [Gw. Le Scouëzec (1986): 270 (nota 2)].

[5] F. Le Roux, Ch.-J. Guyonvarc’h (1983): 80.

[6] Di quanto riportato da Paul-Yves Sébillot, va qui ricordata soltanto la vittima della «Beduina»: la ragazza che si dimostra caritatevole verso quella che ritiene un’anima in pena, ma viene colpita sul volto dal fagotto di biancheria, cade, perse i sensi e diventa pazza.

[7] J. Berthou (1993): 55, 74.
Relativamente a Dinan, Elvire de Cerny sembra confondere, o per lo meno associa, le Iavandières de nuit — che non ritiene né «anime reprobe» (dannate) né «poveri spiriti che assolvono un compito» — con le Dames Blanches.

[8] J. Berthou (1993): 13.