Gallico *iuos "Taxus baccata"


«Il tasso (ivin in bretone) è l'albero dell'immortalità perché sempreverde e di una longevità straordinaria. I cimiteri bretoni senza tassi non sono veri cimiteri. Ha anche la fama di essere il più antico degli alberi. La mazza del dio druido Daghda era di tasso così come la sua ruota. Si scrivevano incantesimi in ogham su legno di tasso. Quest'albero ha anche un simbolismo militare: si facevano scudi e aste di lancia con il suo legno.»

Tratto da: Divi Kervella, Emblèmes et symboles des Bretons et des Celtes, Coop Breizh, Spézet 1998, p. 17.



Il “tasso sanguinante” di Nevern 

<br><br>Il “tasso sanguinante” di Nevern <br><br>


Il “tasso sanguinante” (stillante linfa rossa) del cimitero della chiesa di Saint Brynach a Nevern, Pembrokeshire (Galles).







domenica 9 gennaio 2011

Le kannerezed-noz. 8ª parte


Approfondimenti: le vittime

In Le Men [→ 2ª parte] le vittime sono individui poco avisés, poco «accorti»: non si insospettiscono — così sembra [1] — per il fatto che una donna lavi delle lenzuola da sola e di notte, cioè nell’impossibilità di torcerle o comunque di strizzarle a sufficienza, in condizioni di scarsa luce e in ogni case anomale, anche ai fini di una buona asciugatura — per non parlare dei rischi che si corrono all’esterno durante le ore notturne, quando si può incontrare qualche «essere della notte» (di notte, tra l’altro, ricorda A. Le Braz, la terra appartiene ai morti [2]). Le vittime non sanno poi, o non capiscono, che l’unico rimedio per salvarsi da una «lavandaia della notte» consiste nel torcere il lenzuolo nello stesso senso.
È inoltre esplicito che accortezza significa — e non solo per un bretone — ascoltare i consigli, gli ammonimenti di chi più sa, e, nel caso specifico, cercare, di notte, di passare il più lontano possibile da fiumi, canali e lavatoi: «si eviti perciò con cura di sera la vicinanza dei luoghi in cui abitualmente viene lavata la biancheria». È vero che le lavandaie «vanno loro stesse incontro» ai viandanti, però si presume lo facciano nelle vicinanze dei loro lavatoi [3].
Le Men non accenna al sesso delle vittime. Però forse quelle lavandaie tendevano a rivolgersi piuttosto a maschi che da soli percorrevano tratti di via prossimi ai lavatoi. Si devono infatti prendere in considerazione due ordini di elementi determinanti: le situazioni e motivazioni di chi doveva o poteva permettersi di girare di notte da solo in un contesto socio-culturale tradizionale quale quello bretone (e non solo) del XIX secolo (si vedano lo stesso caso limite di Wilherm Postik in Souvestre, le particolari — spesso simili — circostanze riguardanti le “vittime” degli altri racconti, e quanto dirò più avanti [→ e 10ª parte]); la necessità, per una lavandaia, di chiedere aiuto preferibilmente a maschi in quanto più forti, soprattutto se da sola, cosi come la testimonianza di Le Men lascia intendere là dove viene usato il singolare: la lavandaia «finisce per stancarsi, vedendo che il suo lavoro non procede, e lascia andare la sua vittima».

Per quanto riguarda Les Lavandières de nuit, l’informatore di Souvestre si sofferma ampiamente sull’indole e la condotta di Wilherm Postik, contrapponendo questi ai Bretoni che «fanno il loro dovere di cristiani», soprattutto nel «mese nero», novembre [4], il che fa risaltare maggiormente il «contesto morale» [5] cristiano illustrato dal racconto stesso.
Wilherm non è un «vero cristiano», non pensa ai suoi cari scomparsi, anzi. Il giorno dei Morti infatti, invece di lasciare «la tovaglia sulla tavola e il fuoco acceso», invece di recarsi in chiesa a «pregare per i defunti», raggiunge all’osteria del paese vicino «marinai senza religione e ragazze senza onore».
È degno figlio di suo padre, che «aveva abbandonato questo mondo senza aver ricevuto l’assoluzione». Dopo le morti, avvenute tutte nello stesso anno, di madre, sorelle e moglie — che per il narratore sono «avvertimenti» inviati da Dio —­; dopo il «pubblico ammonimento» da parte del curato, invece di cambiar vita finisce per allontanarsi del tutto dalla chiesa e dalla fede.
Non c’è in lui alcun rispetto né timore per le anime che, la vigilia dei Defunti, di notte riempiono le strade: colpisce con il bastone ai lati delle vie gli arbusti, le siepi — frequentati, come ben sa, dagli spiriti — e sceglie, per tornarsene a casa, proprio la via più breve, quella da evitarsi. Non ascolta le voci di avvertimento che — secondo il narratore — gli inviano, con i loro suoni, la banderuola del castello, l’acqua della cascata, il vento tra i rami. Né si scompone affatto di fronte alle spettro — riconoscibilissimo — della Morte.
Anche soffermandosi con le lavandaie — e comportandosi scherzosamente come soleva con (forse) tutte le donne — sa con chi ha a che fare, ma, privo di paura e consapevole dell’insidia, si prende gioco di loro: non gli possono far nulla, perché lui conosce il mezzo per evitare di rimanere «stritolato»: basta torcere il lenzuolo nelle stesso senso. Quando però, ancora probabilmente con «il cuore caldo di vino», si vede circondato da parecchie kannerezed-noz, tra cui le sue parenti, che gli gridano: «Mille sventure a chi lascia i suoi bruciare all’inferno!»; quando a queste fanno eco «innumerevoli voci», Wilherm, fino a poco prima troppo sicuro del fatto suo, viene preso da terrore — che altro potrebbe accadere ad uno scellerato, ad un uomo sfrontato ed empio? — e dimentica il rimedio messo in atto fino a quel momento.

Diversa la situazione in Le Braz. La vittima è una donna che, lodevolmente, fa del suo meglio per incrementare le finanze familiari senza trascurare le faccende di casa. Però, pur essendo a conoscenza dell’esistenza delle maouezed-noz, ingenuamente cade nell’insidia tesale da una di esse, la quale usa parole rassicuranti e benevole così da vincere ogni timore, sospetto e titubanza.
Dal pericolo la libererà il marito, molto più accorto («plus savant qu’elle»), il quale conosce une scongiuro adatto.
Anche in questo caso dunque la vittima si dimostra poco avveduta, priva di malizia. Tuttavia, a parziale giustificazione di Fanta, va ricordato che la non riconosciuta maouès-noz si presenta come un’altra lavandaia, presumibilmente anch’essa oberata di lavoro, pertanto costretta a fare e a stendere il bucate al chiaro di luna: situazione, questa, con tutta probabilità eccezionale o per lo meno limitata a pochi casi (da questi sono nate forse le credenze sulle lavandières de nuit?) e appunto a biancheria personale, non da letto.
Non si parla di lenzuoli infatti: sono dunque esclusi da questo racconto anche i sudari, ed infatti qui le circostanze e il comportamento della «lavandaia della notte» sono ben diversi, come si avrà modo di precisare più avanti [→ 9ª parte].

Anche Marianna Kerbernès, nel racconto riportato da Luzel, è una madre di famiglia economa: la vendita del filo le consente di accrescere le entrate familiari, per cui, se sta alzata anche tutta la notte, non è solo perché le piace filare. Non per niente vuole «approfittare della buona volontà di una lavoratrice tanto abile», quale si dimostra la sua ospite.
Ma proprio per questo Marianna appare ancor meno avveduta di Fanta e per certi aspetti ingenua. Non si accorge di aver a che fare con una «lavandaia della notte», nonostante questa sia una vecchia dall’aspetto tanto singolare da provocarle un brivido, e fili alla velocità di una macchina a vapore. Non la assale alcun sospetto: né prima, quando la sconosciuta — ancora in strada non molto prima di mezzanotte — con una scusa cerca di entrare in casa e poi di sapere chi c’è, né dopo, quando al lavatoio avrebbe potuto inferire intuitivamente che chi lava accanto a lei è, appunto, una «lavandière de nuit».
Per fortuna ha sposato un uomo più accorto, grazie al quale riesce a liberarsi e a impedire i malefici di quella specie di strega che risulta essere la «lavandaia» di quel racconto. Marianna da quell’esperienza impara — e con lei dovrebbero aver imparato quanti hanno ascoltato la sua disavventura — che non si deve rimanere a lavorare la sera oltre una certa ora.

In Cadic la protagonista della storia, Jeannic C. di Brennilis, è un’altra madre di famiglia costretta a lavare della biancheria di sabato dopo il tramonto, perché probabilmente, come Fanta, già occupata durante il giorno in altre faticose attività. Lo scopo è lo stesso: far sì che i propri famigliari possano indossare delle vesti decenti, pulite, la mattina dopo — ma in effetti Cadic ritrae Jeannic mentre lava «draps et couettes» (lenzuola e coperte).
Jeannic pare più consapevole di Fanta: ha rischiato seriamente andando al fiume di sera, ha evidentemente commesso una grave imprudenza; in presenza delle «lavandaie» è rimasta zitta, per la paura più che non per saggezza (e per sua fortuna le kannerezed non le hanno rivolto alcuna parola); ma almeno sa che le «lavandaie della notte» — perché le ha riconosciute, e senza tanta difficoltà, visto l’aspetto della prima e il loro apparire improvviso — non devono essere disturbate in alcun modo, nemmeno alzandosi, tanto meno fuggendo via: si rischia di esser torti come panni.
Che fare allora, una volta commessa l’imprudenza? Si può provare a rimanere in silenzio, nella speranza che prima o poi (prima dell ‘alba?) Ie kannerezed scompaiano? Jeannic non ce la fa a resistere: corre via il più in fretta possibile, pur sapendo che le lavandaie la posson raggiungere, e forse senza pensare o essere al corrente del fatto che la sua condizione di madre di molti figli la pone al riparo dai supplizi inflitti da quegli esseri.

Chi sono le vittime nelle altre testimonianze contenute nel catalogo redatto da Jean Berthou e nelle pagine di Paul Sébillot [6]? Si tratta quasi sempre di persone quantomeno poco prudenti, che si attardano la sera.
In Elvire de Cerny sono uomini e donne che non evitano i luoghi frequentati dalle lavandières de nuit, le disturbano o, peggio, le sfidano, le provocano fischiando. Allora sono costretti a torcere le lenzuola delle «lavandaie» (probabilmente i sudari di queste; come quelli lavati dalle «lavandières» di Dinan). Non vale però torcere nella stesso senso, perché così facendo le vittime finiscono per essere bastonate a morte dalle mestole delle «lavandaie» inferocite; né è possibile scappare: chi ci prova viene raggiunto e, obbligato a torcere, viene stritolato in tutto il suo corpo come una corda ritorta.
Può inoltre — stando a quanto riferisce la de Cerny — rimanere vittima delle «lavandaie della notte» anche chi porta lungo i canali una chiatta: le imbarcazioni all’alaggio vengono fatte girare tome trottole, i conduttori e i cavalli vanno a fondo.
In P. Sébillot la protagonista della prima delle due storie riportate da J. Berthou (Les Lavandières de Nuit) è una lavandaia di Dinan, «la mère Paillasse», che rincasa attorno all’una di notte dopo aver fatto visita a una partoriente. Dimostra anch’essa poca avvedutezza giacché passa, a quell’ora, accanto al lavatoio dei Noes Gourdais, ove si rivolge a una «lavandaia» e l’aiuta a raccogliere la biancheria, senza insospettirsi — mentre in una lavandaia di mestiere ci si aspetterebbe un’adeguata conoscenza delle credenze locali e un conseguente comportamento.
Nel secondo racconto (La Lavandière des Noes Gourdais) è una domestica a giornata mattiniera a incontrare allo stesso lavatoio una «laveuse de l’autre monde», come la chiama P. Sébillot. Ancora una volta abbiamo a che fare con una donna che per mancanza di tempo è costretta a lavare della biancheria in ore sconvenienti — nel caso specifico prima dell’alba.
Tutte e due le disavventure terminano, se si può dir così, con un lieto fine: la «lavandaia», che rimane zitta e volgendosi fa vedere la propria testa di morto, non insegue le due donne, non fa loro alcun male; si comporta in effetti ben diversamente — la differenza va evidenziata — dai «cattivi geni, nemici giurati degli uomini», quali sono le «lavandières de nuit» descritte dalla de Cerny, nel cui novero l’Autrice senza dubbio comprendeva anche quelle che lavavano il loro sudario sotto le mura di Dinan, e quindi a poca distanza dai Noes Gourdais [7].
In Erwan Berthou le vittime sono quanti disturbano le kannerezed passando accanto a loro, poiché non rimangono in perfetto silenzio: a causa di ciò devono aiutarle nella torcitura della biancheria, e così si ritrovano con le braccia torte. La stessa fine fanno, in Jules Gros (nel Trésor du Breton parlé), coloro i quali le aiutano a strizzare le loro lenzuola.

Per il presente, è stato lo stesso Jean Berthou a raccogliere nel Léon qualche traccia della leggenda delle «lavandaie». Alcune signore di Plourin («Madame M...t») e di Commana («Mesdames R...x») — si tratta sempre di ricordi femminili — ­rammentano che quando erano bambine, i genitori, nel proibire di recarsi al lavatoio a giocare, le spaventavano con la minaccia dell’arrivo delle «Lavandières de la Nuit»; se così suscitavano loro delle paure infantili, era perché miravano a un unico fine: evitare che alle proprie figlie accadesse una disgrazia, innanzi tutto che annegassero.
Le bambine di Commana temevano, anzi «erano terrorizzate all’idea» di venir stritolate (broyées) da quegli spettri femminili che evidentemente — secondo quanto ci riferisce Berthou — la gente del luogo riteneva fossero le «lavandaie della notte». In questa caso dunque, se consideriamo I’imprudenza di chi non ascolta i consigli e le tristi conseguenze, ci troviamo di fronte a “tipiche” (eventuali) vittime delle kannerezed-noz. Quel che è diverso invece è l’età, e con questa la situazione: si desume che cinquanta-settanta anni fa, per lo meno a Commana, le «lavandaie» fossero ormai diventate una specie di spauracchio infantile; e inoltre, da quanto ci dice Berthou, si può pensare che la loro comparsa fosse temuta solo dalle bambine ed anche di giorno (d’altronde, quant’era consistente il rischio che delle bambine, da sole, si allontanassero da casa dopo il tramonto per andare a giocare al lavatoio?).
A Plourin invece — soggiunge Jean Berthou — si tendeva piuttosto a burlarsi delle donne che si affrettavano a raggiungere il lavatoio all’imbrunire, dicendo loro che: «A quella che se ne va al lavatoio a quest’ora, le Lavandaie delle Notte verranno tra poco a prestare manforte».
Qual è in effetti il significato di queste parole? Non dobbiamo forse anche qui arguire — in questo caso specifico dall’intento scherzoso, canzonatorio — che all’esistenza delle kannerezed-noz e al rischio di esserne vittima a Plourin già almeno due generazioni fa, non credeva più nessuno che non fosse ancora bambino o ormai vecchio [8]?

Negli esempi registrati da P. Sébillot, si riscontrano, in buona sostanza, quattro tipi di «lavandaie».
Al primo gruppo appartengono quelle che non pare si rivolgano ai viandanti per nuocer loro (le madri infanticide d’Ille-et-Vilaine; le donne che «hanno violato il riposo domenicale»; le donne che lavano un sudario sporco; la levatrice del lavatoio del castello del Plessix-Pillet; la donna annegatasi a Calorguen).
Vi sono poi le «lavandaie» la cui «apparizione presagisce un decesso» (le madri che lavano le ossa di bimbi morti senza battesimo, nei dintorni di Dinan, oltre alla lavandaia de L’intersigne de «l’étang»).
Il terzo tipo è costituito dalle «lavandaie» che invitano i viandanti a proseguire (quelle dei ponti presso Bécherel e Tinténiac, oltre a quella del «doué des Noes Gourdais»).
Il gruppo più numeroso comprende invece le «lavandaie» malvagie, alle cui vittime fanno torcere la biancheria e mozzano le mani (vittime della cannerez-nooz), spezzano gli arti (giovani passanti che attorno alla mezzanotte rispondono ai loro lazzi), avvolgono intorno un sudario (testimonianza relativa a La Roche-Derrien). A queste bisogna aggiungere — oltre a quelle delle leggende più rilevanti — anche, forse, le «lavandaie» di Bassa Bretagna la cui biancheria «contiene talvolta un neonato», e senz’altro, sia quelle che non hanno potere su chi ha partecipato ad un battesimo (la donna di Landéda), sia le lavandaie notturne che lungo le rive di fiumi e canali dei dintorni di Dinan facevano affondare le imbarcazioni, sia l’epilettica presso il ponte di Kergoet, la cui vittima (ancora una volta un passante) viene però trascinata nell’acqua — e inoltre il Lavous de nuit, che non ha alcun «potere sugli uomini che portano su di sé un oggetto benedetto».
Vi sono infine le fate dell’Alta Bretagna, bendisposte verso gli esseri umani, che appartengono ad una categoria di «lavandaie» diversa dalle kannerezed-noz vere e proprie.
In più della metà dei casi (sei o sette) ricordati da P. Sébillot, nei quali compaiono delle effettive vittime — persone cui le «lavandaie» apportano, o potrebbero apportare, un grave danno, e non solo tanto spavento —, queste sono dei semplici passanti o viandanti (senza specificazione di genere, ma presumibilmente più uomini che donne), negli altri si tratta di donne e madri di famiglia (tre casi) e di giovani uomini (due).


[1] A dire il vero, non si dovrebbero pretendere dalle credenze e dai racconti popolari quel controllo, quella congruenza e coerenza, quella consapevolezza che caratterizzano le opere letterarie: tanta logica, tanti ragionamenti potrebbero apparire fuori luogo; "spaccare un capello in quattro” può risultare eccessivo, inutile, anche tenendo conto dell’intervento (“abbellimenti”, aggiustamenti e altre modifiche) dei raccoglitori, che non si sa se in qualche punto abbiano lasciato o eliminato le eventuali imperfezioni e contraddizioni. Solo se avessimo più versioni e varianti, trascritte fedelmente, di uno stesso racconto, potremmo stabilire da chi dipenda ciò che per noi risulta essere un’incongruenza o un elemento aggiunto, o quanto vada attribuito al racconto in sé e quanto al modo di raccontare dello storyteller.
Ad ogni modo, segnalare, quando ci sono, incongruenze, lacune o contaminazioni e cercare di capirle non mi pare deformi di per sé la sostanza folclorica dei racconti, quel nucleo che ne rende affascinante la lettura. In fondo, il nostro obiettivo è capire, e per raggiungerlo è necessario chiarire il più possibile ogni elemento di una tradizione, sia ciò che è “irrazionale” sia quanto è “ragionevole” e concretamente riferito all’esperienza quotidiana, visibile e tangibile.

[2] A. Le Braz (1990): t. II, p. 24.

[3] F. Le Roux, Ch.-J. Guyonvarc’h (1983): 79.

[4] In bretone miz-du o semplicemente Du ‘Nero’ [Gw. Le Scouëzec (1986): 270 (nota 2)].

[5] F. Le Roux, Ch.-J. Guyonvarc’h (1983): 80.

[6] Di quanto riportato da Paul-Yves Sébillot, va qui ricordata soltanto la vittima della «Beduina»: la ragazza che si dimostra caritatevole verso quella che ritiene un’anima in pena, ma viene colpita sul volto dal fagotto di biancheria, cade, perse i sensi e diventa pazza.

[7] J. Berthou (1993): 55, 74.
Relativamente a Dinan, Elvire de Cerny sembra confondere, o per lo meno associa, le Iavandières de nuit — che non ritiene né «anime reprobe» (dannate) né «poveri spiriti che assolvono un compito» — con le Dames Blanches.

[8] J. Berthou (1993): 13.

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