Gallico *iuos "Taxus baccata"


«Il tasso (ivin in bretone) è l'albero dell'immortalità perché sempreverde e di una longevità straordinaria. I cimiteri bretoni senza tassi non sono veri cimiteri. Ha anche la fama di essere il più antico degli alberi. La mazza del dio druido Daghda era di tasso così come la sua ruota. Si scrivevano incantesimi in ogham su legno di tasso. Quest'albero ha anche un simbolismo militare: si facevano scudi e aste di lancia con il suo legno.»

Tratto da: Divi Kervella, Emblèmes et symboles des Bretons et des Celtes, Coop Breizh, Spézet 1998, p. 17.



Il “tasso sanguinante” di Nevern 

<br><br>Il “tasso sanguinante” di Nevern <br><br>


Il “tasso sanguinante” (stillante linfa rossa) del cimitero della chiesa di Saint Brynach a Nevern, Pembrokeshire (Galles).







lunedì 21 febbraio 2011

Le kannerezed-noz. 12ª parte



Approfondimenti: l’ambientazione

Nei racconti esaminati si ritrova quel legame con i luoghi che caratterizza le leggende [1]. I personaggi agiscono o subiscono l’azione dei loro avversari in luoghi precisi, noti o rintracciabili dai destinatari delle storie; luoghi appena accennati o sommariamente descritti oppure dipinti con ricchezza di particolari, a seconda dell’estro e della capacità del narratore, cui in alcuni casi il raccoglitore-traduttore si sovrappone con il suo stile e le sue inclinazioni letterarie.
Infatti, per quanto attiene alla geografia della Bretagna, nei sei racconti riportati nel Catalogue di Jean Berthou [Les Lavandières de nuit (Souvestre), Celle qui lavait la nuit (Le Braz), La Lavandière de Nuit (Luzel), Les Lavandières de Nuit (Cadic), Les Lavandières de Nuit e La Lavandière des Noes Gourdais (P. Sébillot)], e negli altri tre raccolti rispettivamente da Le Braz e Luzel — L’intersigne de «l’étang»; La lavandière de nuit (et Soëzic ar Floc’h), La lavandière de nuit du douet de Plougonven —, si riscontra che:
– in quattro, le località in cui avvengono i (o una parte dei) fatti sono esplicitamente indicate dal narratore o dal raccoglitore (Cadic: Brennilis; P. Sébillot: Noes Gourdais; L’intersigne de «l’étang»: Kergogn; Luzel: Plougonven);
– in uno, ma forse in altri due, non vengono nominate ma si possono congetturare deducendole da informazioni relative al narratore o al luogo di registrazione (Souvestre: Guissény; Le Braz: Plougastel-Daoulas?; La Lavandière de Nuit (Luzel): Plouaret?);
– in due viene menzionato un luogo a breve distanza [L’intersigne de «l’étang»: Kergogn; La lavandière de nuit (et Soëzic ar Floc’h): la fattoria del Loguellou (Botsorhel)];
– in tre casi vien menzionato un centro (più o meno) vicino più importante (La Lavandière de Nuit (Luzel): Morlaix; P. Sébillot: Dinan; L’intersigne de «l’étang»: Penhars);
– di due racconti comunque si conosce almeno la “provincia tradizionale” [2] di appartenenza e/o il paese natio di un personaggio — in un caso però secondario — (Souvestre: Léon, Henvik; Le Braz: Cornouaille, Saint-Tremeur).
In dieci altre testimonianze, sufficientemente dettagliate sul piano spazio-temporale e relative a credenze bretoni locali [Le Men, Luzel (Pont-ar-Goazcan), Cadic (3), de Cerny, E. Berthou (2), Plourin e Commana (ricordi recenti)], si osserva una maggior omogeneità e certezza nei dati specifici:
– in nove compaiono centri abitati/luoghi geografici ben precisi in cui si pensava ci fossero delle «lavandaie» (de Cerny: Dinan; Cadic: Plouharnel, Vréguézel, Brennilis; E. Berthou: Pleubian, Lanmodez; Plourin, Commana; Luzel: Pont-ar-Goazcan);
– in una si nomina solo la “provincia tradizionale” di massima diffusione (Le Men: Léon).

Dargent- 2Non in tutti i nove racconti poi, i luoghi d’azione sono tratteggiati con dovizia di elementi descrittivi. Les Lavandières de nuit (Souvestre) risulta il più ricco, per la presenza di dati appartenenti sia alla sfera visiva sia a quella uditiva: le vie, le croci, le ginestre, il buio della notte senza luna né stelle, le foglie morte, il tremolar dei cespugli, il maniero in rovina, le pietre del torrente, la quercia morta; il canto, il risuonar degli zoccoli [3] sui ciottoli, il vento, le fonti, la banderuola, la cascata, i rintocchi della mezzanotte..., elementi che sono già numerosi anche senza quelli relativi al luoghi d’incontro con l’Ankou e con le kannerezed-noz (la douez, cioè il lavatoio, e le sue immediate vicinanze).
In Celle qui lavait la nuit (Le Braz), nella prima parte è predominante la componente uditiva (il silenzio della notte rotto dai rumori del bucato e dai colloqui delle due lavandaie) in confronto all’essenzialità degli aspetti visivi (il chiaro di luna, il fiume, la biancheria); nella seconda parte invece lo scenario è più dettagliato: il letto (bank-tossel), la cucina con il focolare e gli utensili, la soglia, la porta.
Ne L’intersigne de «l’étang» (Le Braz) invece, rispetto alla componente uditiva grossomodo ridotta al dialogo tra Josik e la lavandaia, prevalgono di gran lunga gli elementi visivi: lo stagno, il chiaro di luna che ne fa brillare la superficie, la strada, la cava, la cuffia e il costume della lavandaia, la sua cassetta di legno, il lenzuolo che si allarga fino a coprire tutto lo stagno; il focolare, la scodella di zuppa, lo sgabello, la luce della candela.
Ne La Lavandière de Nuit (Luzel) l’ambiente è costituito dalla casa (con l’arcolaio, l’orologio, il focolare, il letto, la porta, il pavimento [di terra battuta] e tutte le cose usate dalla «sorcière»), il retro (il cortile con un ripostiglio), il lavatoio, la fontana, con una netta predominanza del visivo (non manca nemmeno il chiaro di luna) sulI’uditivo, limitato alle voci e ai rumori fatti dalle donne.
Ne La lavandière de nuit (et Soëzic ar Floc’h), sono menzionati solo gli elementi principali dell’ambientazione (il prato, il boschetto, lo stagno, il ruscelletto, la casa lungo il cammino) e i tre colpi violentissimi della lavandaia sulle pietre del lavatoio; mentre ne La lavandière de nuit du douet de Plougonven, nell’insieme abbiamo una maggiore presenza di particolari descrittivi: il chiaro di luna, il ruscello, la passerella di legno, lo stagno, il prato, la strada, la scarpata, la larga mestola della lavandaia, la chaumière, gli zoccoli e il cappello, la pietra del lavatoio; i forti colpi della mestola, la mestola scagliata contro la porta che va in pezzi.
In Cadic è accennato soltanto il fiume (che diventa rosso per il sangue della prima kannerez-noz), in P. Sébillot il lavatoio, con il prato circostante.
Anche nelle altre testimonianze — escluse quelle ricordate, sommariamente, da Paul e Paul-Yves Sébillot ne Le folk-lore de France e La Bretagne et ses traditions, e anche Les lavandiéres de nuit de Pont-ar-Goazcan — son presenti per lo più gli elementi essenziali: fiumi, lavatoi, strade... Qualche particolare in più in Cadic: gli alberi oscillanti (Poul-er-Pont), e soprattutto in de Cerny: stagni, ruscelli, canali e alzaie, le mura e le torri di Dinan, l’acqua della Rance «fosforescente» (e i luoghi frequentati dai gatti).

In realtà, anche in queste leggende non vi è una descrizione esatta, oggettiva, strutturata nelle sue parti, del luogo d’azione, ma piuttosto l’accenno ad alcune componenti di un quadro (si potrebbe parlare di suggestione ambientale, più che di ricostruzione) che potremmo ritrovare in chissà quanti luoghi reali della Bretagna, se non sapessimo che le vicende sono riferite dai narratori a luoghi (di solito) geograficamente determinati. Se dunque vi è determinatezza nelle strutture spaziali, è soprattutto perché i vari elementi — concreti sì, ma di per sé comuni, topograficamente generici — nel loro insieme sono attribuiti a luoghi determinati, quasi sempre denominati con il loro toponimo.
Prendiamo in considerazione, ad esempio, proprio Les Lavandières de nuit raccolta da Souvestre. Centottanta anni fa, più persone forse, sulla base degli elementi descrittivi inseriti nel racconto, avrebbero potuto riconoscere nella rappresentazione dei luoghi (prossimi a Guissény?) nei quali si svolge la vicenda di Wilherm Postik, qualcosa di familiare, vale a dire delle particolarità geografico-ambientali uguali o simili a quelle dei luoghi della loro esistenza, passata o presente. Il narratore però — un abitante di Guissény — ha presumibilmente arricchito la storia di dettagli funzionali al raccontare stesso, anche allo scopo di accrescere l’emozione del proprio uditorio. E coincidendo questo, nell’atto della registrazione, con il raccoglitore, il narratore ha potuto descrivere il percorso del protagonista indicando i luoghi, reali o verosimili che siano, ma non gli eventuali toponimi [4], eccezion fatta per Henvik (attuale Henvic), il paese di Fantik ar Fur.
Qualcosa di simile deve essere accaduto nel caso delle altre testimonianze, quando queste non contengano alcun microtoponimo.

Anche i riferimenti temporali, nei racconti bretoni in esame, risultano quelli tipici delle leggende. Hanno infatti la concretezza del vissuto, dell’esperienza personale e collettiva.
Bisogna tuttavia anche in questo caso distinguere tra testimonianza e testimonianza. Vi è però innanzi tutto un aspetto comune: tutte le vicende si svolgono dopo il tramonto o di notte (ne La lavandière de nuit du douet de Plougonven terminano però a giorno inoltrato), la qual cosa — come ben si sa — dipende sia dal fatto che le «lavandaie» sono esseri della notte sia dai particolari comportamenti dei protagonisti delle storie, i quali non rispettano la regola generale (e i consigli dei vecchi o di chi ha maggior esperienza e buon senso): non si deve andare in giro di notte né lavorare (specialmente all’esterno) quando si dovrebbe essere a letto [5].
I racconti si differenziano invece quanto a ore, durata, giorni e mesi o stagioni particolari. Tutte le nove storie, tranne quella di Souvestre e La lavandière de nuit du douet de Plougonven, si svolgono sicuramente o presumibilmente durante la bella stagione. Solo in una (Celle qui lavait la nuit) si fa esplicito riferimento all’estate (il mese d’agosto), mentre ne La lavandière de nuit (et Soëzic ar Floc’h) è indicato il mese d’aprile; nelle altre l’assenza di particolari relativi al freddo, a perturbazioni atmosferiche, ad abiti pesanti, e il fatto che le protagoniste escano — e soprattutto per andare a lavare — di sera o di notte, fanno propendere per un contesto estivo (o almeno primaverile: ne L’intersigne de «l’étang» Josik indossa il mantello per uscire).
Differente situazione si ha invece in Souvestre, poiché — come s’è visto [→ e 8ª parte] — il dramma di Wilherm si compie alla vigilia del 2 novembre, vale a dire la sera di Ognissanti, quando i defunti ritornano tra i vivi ed entrano nelle ioro case di un tempo per riscaldarsi e consumare il «pasto dei morti», che un tempo i Bretoni preparavano per i propri cari prima di coricarsi. Inoltre, se diversamente da quasi tutte le leggende (fa eccezione quella di Jeannic C. di Brennilis) le «lavandaie di notte» ne Les Lavandières de nuit sono più d’una — anzi sono numerose e presenti in ogni lavatoio della vallata, lungo ogni siepe, sulla parte alta di ogni landa —, è perché il protagonista-vittima se ne va in giro non in una notte qualsiasi (della bella o della brutta stagione), ma proprio in quella di Ognissanti, la festa cristiana che, aggiunta per anteposizione al Giorno dei Defunti, ha preso il posto di quella pagana, presumibilmente simile alla festa di Samain (Primo Novembre) dei testi irlandesi [6].
La storia di Wilherm — non per niente la più complessa e strutturata — è in effetti quella caratterizzata dai riferimenti temporali più precisi e dettagliati, ed inoltre dalla durata maggiore (sulle 14 ore): il protagonista si reca nel paese vicino verso sera, ci resta fino alle 23 circa, incontra l’Ankou subito dopo mezzanotte e le kannerezed­-noz successivamente, e infine viene ritrovato cadavere da Fantik ar Fur all’alba.
Negli altri racconti le strutture temporali sono per lo più limitate al trascorrere di qualche ora serale o notturna.
In Celle qui lavait la nuit (Le Braz) e in Cadic (l’episodio di Jeannic C. di Brennilis) i fatti hanno luogo di sera: iniziano dopo il tramonto e terminano rispettivamente all’incirca dopo 3-4 (entro la mezzanotte) e 1-2 ore. Ne L’intersigne de «l’étang» (Le Braz) la storia inizia all’ora di cena e si conclude durante la notte (l’ora non è specificata); ne La lavandière de nuit et Soëzic ar Floc’h (Luzel) ha inizio alle nove circa, per una durata presumibile di 1-2 ore. Ne La Lavandière de Nuit (Luzel) le vicende vere e proprie si svolgono di notte, dopo le 23 e prima dell’alba (forse 4-5 ore in tutto); ne La lavandière de nuit du douet de Plougonven invece, l’avventura ha luogo tra le 2-3 di notte e il pieno giorno (forse per un periodo complessivo di 6-7 ore). In P. Sébillot vi è differenza tra un racconto (Les Lavandières de Nuitla mère Paillasse) e l’altro (La Lavandière des Noes Gourdaisune femme de journée): nel primo i fatti avvengono tra la sera e le 2 di notte circa (presumo una durata di 5-6 ore), nel secondo da prima dell’alba in poi, per una durata, credo, di all’incirca due ore.

Nelle altre testimonianze, vale a dire le dieci che contengono più che altro delle credenze, riguardo ai riferimenti temporali si rileva grosso modo la stessa essenzialità evidenziata nei dati spaziali. Infatti in genere non si va oltre l’accenno alla sera o alla notte, o al massimo alI’imbrunire (in E. Berthou e nella testimonianza raccolta a Plourin). Unicamente in Le Men è riferito l’elemento particolare del bucato fatto solo durante le ore dispari. Va qui ricordato ancora una volta [→ 6ª parte] che ne La Légende de la mort è riportata la convinzione presumibilmente diffusa in tutta la Bretagna, che per evitare danni, se proprio si deve passare attraverso un cimitero, è bene farlo solo nelle ore dispari [7]. Purtroppo né Le Braz né, in nota, Dottin ci forniscono ulteriori ragguagli su questa precauzione [8].

Per quanto concerne riferimenti temporali cronologicamente determinati, “assoluti”, c’è da dire che nel complesso i diversi documenti bretoni in esame di per sé non ne contengono. Credenze e racconti infatti appartengono in tutto e per tutto al periodo storico durante il quale sono stati messi per iscritto — la maggior parte tra il 1830 e il 1900 ­—, tant’è che in un caso, Luzel [→ e 6ª parte], il cenno alla velocità delle macchine a vapore conferma l’appartenenza del narratore al 1800, o tutt’al più potrebbe consentire una “retrodatazione” della prima narrazione contenente quel particolare, di qualche decennio rispetto all’anno di registrazione, il 1890. Sta di fatto che quel cenno è, se non vado errato, l’unica allusione alla Rivoluzione industriaIe presente nei testi dei raccoglitori di testimonianze sulle «lavandaie» bretoni presi in considerazione [9]; sotto l’aspetto della “cultura materiale”, dell’economia e della tecnologia agraria, il mondo in cui vivono i personaggi delle storie (ma la cosa sembra valere anche per gli informatori), non dovrebbe essere dissimile da quello in cui credo vivessero i Bretoni del 1700: una società rurale, in cui è possibile per le donne risparmiare sulle spese della famiglia o incrementarne le entrate attraverso l’attività di lavandaia o quella domestica della filatura (non della tessitura, che veniva svolta da tessitori di mestiere) [10].
Anche là dove ci si aspetterebbe una maggiore precisione relativa agli anni o per lo meno ai decenni — i ricordi recenti di alcune signore di Plourin e Commana —, siamo sprovvisti di dati cronologicamente precisati, e si è stati costretti a parlare, supra [→ 8ª parte], di convinzioni e atteggiamenti risalenti approssimativamente a 50-70 anni fa. Meno imprecisi, comunque, risultano i riferimenti cronologici contenuti nei ricordi di Erwan Berthou, risalenti all’incirca al periodo 1865-1910, ma si tratta appunto di un’altra rievocazione (in questo caso, meno recente) di comportamenti e sentimenti.

Come ho ricordato di volta in volta, in più storie compare il motivo del chiaro di luna: in Le Braz (Celle qui lavait la nuit, L’intersigne de «l’étang»), Luzel (La Lavandière de nuit, La lavandière de nuit du douet de Plougonven [11], e anche la testimonianza di Laouic Mihiac [12]), P. Sébillot (la mère Paillasse). Tutto sommato credo sia un elemento funzionale alla descrizione ambientale: innanzi tutto proprio perché in Souvestre è presente la situazione opposta: «la notte era senza luna e senza stelle».
Non che in Bretagna fossero di poca o nessuna importanza la presenza, l’influsso, le fasi della luna, tant’è vero che Anatole Le Braz riferisce la convinzione che un bimbo nato di notte con la luna stretta attorno o coperta diffusamente da nuvole, sarebbe morto impiccato o annegato [13]. Ma non mi risulta alcuna particolare connessione folclorica tra le «lavandaie» bretoni e il chiaro di luna, al di là del fatto che dove si narra di esseri della notte incontrati da viandanti o lavandaie sia prevedibile la presenza dell’astro notturno ad illuminare luoghi e attività umane svolte appunto di notte, e che — stando a quanto riporta É. Mozzani — in Bretagna si credesse che la biancheria lavata con la luna nuova, si sarebbe ristretta, logorata e strappata [14].
D’altronde, le credenze sugli influssi della luna, che fan parte dell’astrologia popolare (non solo contadina) simile un po’ in tutta Europa, e sono giunte sino a noi dall’antichità precristiana attraverso il Medioevo e l’Evo Moderno, hanno sempre appartenuto a quel particolare sapere folclorico che, per quanto sia stato osteggiato dalla Chiesa come superstizione assieme ai culti di origina pagana, è riuscito a conservarsi, almeno in parte, fino ai nostri giorni nei lunari e nei proverbi del mondo contadino.


[1] Cfr. G. L. Beccaria (1987): 17-8; T. Gatto Chanu (1989): 20.

[2] In bretone, bro = francese pays.

[3] Nella traduzione gli «zoccoli» (galoches) di Wilherm sono diventati «stivali», le «fonti» (sources) «ruscelli» [cfr. Gw. Le Scouëzec (1986): 35].

[4] Si confronti, come esempio, il lavatoio di questo racconto, chiamato semplicemente «le lavoir», «la douéz», con le doué des Noes Gourdais delle due storie riferite da P. Sébillot.

[5] Cfr. A. Le Braz (1990): t. II, p. 24.

[6] In irlandese corrente Samhain è il mese di ‘novembre’. Samain è confrontabile con Samonios, il nome gallico del primo mese del calendario di Coligny [X. Delamarre (2008): 265-6].

[7] A. Le Braz (1990): t. I, p. 301; P. Sébillot (1968c): 134.
P. Sébillot riferisce inoltre che nella Gironde e nella Beauce si riteneva che le ore dispari fossero le più pericolose della notte, e in Bassa Bretagna fossero quelle in cui i folletti potevano «exercer leur malice» [P. Sébillot (1968a): 145; cfr. anche É. Mozzani (1995): 1226, 1240].

[8] Sulla necessità di utilizzare, in determinate attività, particolari cose di numero dispari, cfr. P. Sébillot (1968b): 193 (uccelli), 230 (uova), 241 (maléfice amoureux; ora), 387 (bastoni dei pastori) e P. Sébillot (1968c): 77 (colliers talismans).
É. Mozzani ricorda come, per lo più, i numeri dispari vengano ritenuti quelli fortunati [É. Mozzani (1995): 1225-6].

[9] Si accenna a «la rapidité et le ronflement des machines à vapeur» in un paragone contenuto in un’altra leggenda narrata, in bretone, a Luzel da François Thépaut (il 17 febbraio 1890): La dame blanche [F.-M. Luzel (1995): 164].

[10] Nel racconto Le linceul de Marie-Jeanne, si narra che questa filava il lino ma lo faceva tessere dal «tisserand du bourg» [A. Le Braz (1990): t. I, p. 336]. Cfr. anche F.-M.Luzel (2007): 187.

[11] F.-M.Luzel (2007): 215.

[12] F.-M.Luzel (2007): 225.

[13] A. Le Braz (1990): t. l, p. 391.
Alle pp. 249-50 del II tomo, si narra di una morta che ritorna tutte le notti finché non appare la luna nuova.
P. Sébillot riferisce credenze relative a punizioni verso ragazze e donne incinte bretoni che non si nascondono allo sguardo della luna «quando soddisfano un bisogno naturale», e casi di venerazione della luna — ­Pater noster recitato alla luna nuova — attestati in Bretagna per gli anni attorno al 1620 [P. Sébillot (1968a): 41-2; P. Sébillot (1990): 178-9; cfr. anche Gw. Le Scouëzec (1986b): 174, É. Mozzani (1995): 1030-2, P.-Y. Sébillot (1998): 288].
Sull’importanza della luna nella cultura degli antichi popoli celtici e nel folclore dei paesi celtici: P. Sébillot (1968a): 41-7; P. Sébillot (1968c): 58; J. de Vries (1982): 167-9; J. Chevalier, A. Gheerbrant (1986): s. v. Luna (pp. 46-7); F. Le Roux, Ch.-J. Guyonvarc’h (1986): 135-6, 138-9, 141, 260; P. Sébillot (1990): 178-80; M. J. Green (1992): 153-4; J. C. Davies (1992): 219-21; P.-Y. Sébillot (1998): 288-9; Ph. Jouët (2007): 80, 244, 399 (nota 17).

[14] É. Mozzani (1995): 970, 1031.
Sono le fate che al chiaro di luna compiono «des gestes assez nombreux» [P. Sébillot (1968a): 144].
Un esempio bretone di azione magica per la quale la luna piena era indispensabile: bagnandosi il dito mignolo della mano sinistra in una fontana a Saint-Samson, presso Dinan, a mezzanotte e con la luna piena, si credeva di ottenere una forza straordinaria [P. Sébillot (1968): 237].

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