Gallico *iuos "Taxus baccata"


«Il tasso (ivin in bretone) è l'albero dell'immortalità perché sempreverde e di una longevità straordinaria. I cimiteri bretoni senza tassi non sono veri cimiteri. Ha anche la fama di essere il più antico degli alberi. La mazza del dio druido Daghda era di tasso così come la sua ruota. Si scrivevano incantesimi in ogham su legno di tasso. Quest'albero ha anche un simbolismo militare: si facevano scudi e aste di lancia con il suo legno.»

Tratto da: Divi Kervella, Emblèmes et symboles des Bretons et des Celtes, Coop Breizh, Spézet 1998, p. 17.



Il “tasso sanguinante” di Nevern 

<br><br>Il “tasso sanguinante” di Nevern <br><br>


Il “tasso sanguinante” (stillante linfa rossa) del cimitero della chiesa di Saint Brynach a Nevern, Pembrokeshire (Galles).







martedì 22 febbraio 2011

Le kannerezed-noz. 13ª parte



Lavandières de nuit e revenants in Bretagna

Come ho evidenziato e argomentato ampiamente nella “” e nella “7ª parte”, nelle «lavandières de nuit» di rilevanti documenti della tradizione orale bretone [Cambry, Le Men, Souvestre (in parte), Le Braz (Celle qui lavait la nuit), Luzel, Cadic, de Cerny, Erwan Berthou, Jules Gros, le bambine di Commana; le storie della donna di Landéda e dell’epilettica annegatasi mentre lavava], si deve piuttosto vedere una categoria di revenants simili per più tratti a spiriti notturni malevoli; dei revenants quasi certamente dannati, dato il loro atteggiamento ostile nei confronti dei vivi, soprattutto di persone da biasimare per il non rispetto (talvolta occasionale) di alcune norme e consuetudini comuni, e per la scarsa avvedutezza, più che per gravissime colpe verso Dio o il prossimo.
Si tratta (quasi) sempre inoltre di esseri femminili, la qual cosa si potrebbe facilmente spiegare con il fatto che a fare il bucato al lavatoio erano le donne. L’unico caso di «lavandaio» a me noto [→ e 6ª parte] è quello dell’«homme qui lavait» di Poul-er-Pont, Trinité-sur-Mer (in Cadic), vale a dire Paotr Poul-er-pont, uno spontailh (‘spauracchio’), un essere notturno che si diverte a spaventare e a fare scherzi. In realtà non lo si può ritenere un revenant [1].
Ma esiste una categoria di “ritornanti” maschi, di hommes-spectres, in qualche modo paragonabile a quella di femmes­-spectres costituita dalle kannerezed-noz?
Secondo Georges Dottin, Yann Brekilien, Gwenc’hlan le Scouëzec, non sono revenants né i vari Paotred (‘garcons’) della zona di Carnac, né il «crieur de nuit» (hoper-noz) o il «petit enfant/berger de nuit» (bugel-noz), tutti «Esseri della Notte» differenti dal popolo dei defunti, gli anaon. Forse è un antichissimo revenant «Petit Jean de la grève» (Yannig an aod), che per alcuni è invece l’Ankou dei marinai [2].
Costituiscono una specie particolare i krierien («crieurs»), anime urlanti di annegati («che reclamano una sepoltura»): nella valle dell’Aulne si crede che chi risponde al loro grido per tre volte, venga raggiunto e strangolato o annegato — ­sono dunque simili nel comportamento a Yannig an aod (cfr. quanto riportato nell’“11ª parte”). Si tratta di esseri maschili poiché nell’isola di Sein e a Cap Sizun son descritti come marinai indossanti cerata e nordovest (cappello di tela cerata). La loro apparizione collettiva — in fila per sette — annuncia un decesso o un naufragio [3].
Risulta assente in questa sintesi l’espiazione, il castigo, cioè proprio quell’elemento che in Le Men e Cadic, ma anche in Souvestre, caratterizza in senso cristiano il contenuto folclorico tradizionale relativo alle kannerezed. Ma se si guarda quanto riferito da Le Braz sulla categoria dei noyés — nessuno infatti può dubitare che i krierien siano degli «annegati» —, si ritrova quel motivo: i morti in mare «restano a fare penitenza nel luogo in cui sono stati inghiottiti, fino a che accada ad altri di annegare nello stesso posto. Solo allora essi sono liberati» [4].
Le Braz tra gli annegati pone anche Iannic-ann-ôd, anzi riferisce che tutti gli «annegati urlanti» vengono chiamati con quel nome [5]. Annovera invece tra i «morti malefici» il hoper-noz, registrandone un racconto in cui ha tratti simili a quelli del bugel-noz; nell’Introduction poi, considera tutte e due queste figure come dei «personaggi fantastici» che, «originariamente generati dalla paura delle tenebre», la credenza popolare ha trasformato in morti, in revenants [6].
Mi pare comunque che qui, e altrove, le Braz non differenzi i «ritornanti» dai «fantasmi», come se i due termini designassero all’incirca una stessa classe di morti. È opportuno dunque esaminare alcuni capitoli de La Légende de la mort allo scopo di definire quali diversi tipi di defunti e di anime, e con quali nomi, sono presenti nei documenti folclorici ivi raccolti da Le Braz.
• Sono «ritornanti» gli assassinati: essi infatti «“ritornano” [“reviennent”] finché il loro assassino non abbia “pagato il tributo”»; gli impiccati «sono condannati a rimanere tra cielo e inferno, per l’eternità» [7].
• L’Anaon (nome collettivo [8]) è formato dal «popolo immenso delle anime in pena». Numerosissime e in condizioni diverse (spesso sotto forma di animali), fanno penitenza sulla terra: «font sur terre leur purgatoire». L’Anaon è costituito anche da tutte le anime dei defunti [cfr. Gouel an Anaon = ‘Festa dei Morti’ (2 Novembre)]: non bisogna piangerlo troppo, altrimenti si turbano le anime beate, si ritarda la salvezza di quelle purganti, si raddoppia il supplizio di quelle dannate [9].
Les revenants. Tutti i morti devono «revenir» tre volte (ma quando non vien detto). Le anime devono fare penitenza nei luoghi e per il periodo loro assegnati da Dio (i suffragi accorciano la durata della pena). «Dopo la morte, l’anima compare al tribunale di Dio per subirvi il jugement particulier. [Quindi] ritorna sul corpo (non dentro), e vi resta per tutta la durata del funerale, fin dopo l’inumazione.» Poi si reca nel luogo in cui deve compiere la sua penitenza [10].
I revenants dunque, qui paiono anime penitenti. Tale condizione è confermata da un racconto in cui una donna che riceve la visita della figlia morta annegata, osserva: «Visto che tu ritorni, vuoI dire che non sei dannata» [11].
Les morts malfaisants: risultano tali sia dei «ritornanti malintenzionati» sia dei «fantasmi» malefici. Nel Léon si crede che le grandi ventate siano originate da turbini di anime rabbiose di dannati che cercano di nuocere ai vivi; chi non si getta immediatamente faccia a terra, viene avvolto, stordito e trascinato all’inferno. Sono posti tra i «morti malevoli» — lo si è visto (cfr. anche la “4ª parte”) — sia il hoper-noz sia le maouezed-noz. Che si tratti di anime tendenzialmente dannate lo si desume anche da un altro racconto, in cui si narra di tre morte condannate a una penitenza che vien detta eterna, ma viene compiuta nell’Argoat [12], in una capanna che alla fine della storia scompare assieme alle tre donne [13].
• I morti scongiurati sono in genere persone che hanno rubato e che devono restituire il mal tolto, persone che «hanno condotto una vita di disordini» (ricchi, nobili e borghesi). «Le loro anime sono condannate ad errare finché il torto che hanno fatto sia stato riparato in qualche modo. Esse sono astiose e malvagie.» Credo siano più che altro anime dannate [14].
L’inferno. «I dannati sono perduti per sempre. Di essi non si sente più parlare.» «I morti non ritornano mai dall’inferno» [15].
Sulla base di tali credenze si dovrebbe affermare che i revenants non possono essere anime dannate, ma solo anime espianti le loro colpe.

Nell’Introduction (datata 19 maggio 1902) Le Braz nota che i morti nella maggioranza dei casi continuano a «fare nell’altro mondo ciò che facevano in questo. [...] Il trapasso non cambia nulla alla condizione dell’uomo. Il morto è “partito”, ma la vita che conduce nella sua nuova residenza è identica all’esistenza di una volta. [...] Questi esseri d’oltretomba sono designati con un nome collettivo: ann Anaon, le Anime. Ma queste anime non appaiono affatto separate dai loro corpi. Il defunto mantiene la sua forma materiale, il suo aspetto fisico, tutti i suoi tratti.» E così pure i sentimenti, i gusti, le preoccupazioni, gli interessi. «Egli frequenta la sua casa quasi quanto in passato. Ritorna a sedersi al focolare, [...] a sorvegliare il movimento delle persone e quello delle cose.» «Ritorna, ho detto? L’espressione è impropria. Non sono affatto dei ritornanti, poiché, ad esser precisi, non si sono allontanati affatto, oppure talmente poco! [...] Se la morte è un viaggio, il ritorno, in ogni caso, segue molto da vicino la partenza. [...] L’immensa maggioranza dei morti [ovvero quanti non raggiungono quella specie di altro mondo sotterraneo che è lo Yeun Elez (vasto marais presso Brasparts) o quelli marini, primo fra tutti l’isolotto roccioso di Tévennec (al largo della Pointe du Raz), ove si trovano rispettivamente «le anime inquiete, pericolose» e quelle il cui corpo è stato inghiottito dal mare] sembra che entrando nella tomba, entrino nello stesso tempo nell’altra vita. Essi ritornano dunque, in definitiva, ai medesimi luoghi in cui sono sempre vissuti. Il soggiorno dei morti si confonde con quello dei vivi» [16].

Dieci anni prima, nell’introduzione (datata giugno 1892) alla prima edizione de La Légende, Léon Marillier aveva rilevato come in molte credenze e usanze funerarie dei Bretoni si manifestasse ancora un’antica «concezione tutta materiale» delle anime dei morti (si pensi soltanto — per citare solo un paio tra le abitudini ricordate da Marillier stesso — al treppiede tolto dal fuoco per evitare che i morti, sedendovisi sopra, si brucino o al pasto preparato per loro la sera di Ognissanti) [17]. A quello studioso dobbiamo anche un’utile “classificazione” delle anime dei defunti [18]:
– «le anime erranti, le anime che frequentano le case e le lande e con cui si intrattengono i vivi, sono tutte o quasi tutte le anime sofferenti che non hanno ancora terminato la penitenza» assegnata per i loro peccati;
– «i dannati sono perduti per sempre; una volta rinchiusi nell’inferno con i demòni, non si sente più parlare di essi»;
– «i ritornanti, per quanto cattivi possano essere, non sono affatto di solito dei dannati, sono delle anime in pena»;
– in alcune «leggende edificanti e morali», compaiono dei dannati dell’inferno ritornanti (per far cessare delle preghiere che causano un aumento della sofferenza; per rimproverare la propria madre la cui «cieca indulgenza» è stata causa di perdizione); si tratta però di casi eccezionali;
– in altre leggende, «d’origine veramente popolare», dei dannati, «malgrado la condanna divina, non sono stati affatto precipitati nell’inferno e son rimasti sulla terra dei vivi nelle dimore degli uomini». Per mezzo di esorcismi e scongiuri vengono costretti «a recarsi al soggiorno che è stato assegnato loro da Dio»;
– gli «eletti» escono raramente dal paradiso [19];
– «sono quasi sempre povere anime che attendono ancora che la bontà di Dio apra loro finalmente le porte del cielo», quei morti «caritatevoli» che, «come dei geni protettori del focolare», abitano le case dei loro cari.

In ultima analisi, per Anaon dobbiamo intendere innanzi tutto le innumerevoli anime penitenti ed erranti che si mescolano ai vivi. I revenants sono per lo più anime in pena, compresi quanti son deceduti di morte violenta o accidentale (assassinati, annegati...); qualche incertezza semantica nasce dal fatto che in francese revenant, il cui primo significato è di «anima che torna dall’altro mondo sotto un’apparenza fisica», è sinonimo di «fantasma» («apparizione di un morto»). I dannati sono quasi tutti rinchiusi nell’inferno: solo alcuni «ritornano» a far visita ai vivi; altri dannati frequentano luoghi terrestri e si dimostrano ostili ai vivi: sono i «morti malefici» e quelli da scongiurare.
Se possiamo collocare tra i «ritornanti malintenzionati» le «lavandaie della notte», è perché — stando a Le Men — sono condannate a ritornare sulla terra (e a ritornare, a quanto pare, ogni notte) a lavare presso i lavatoi. Ciò vale anche per le kannerezed de Les Lavandières de nuit (Souvestre), che ricordano cantando come la loro penitenza dovrà durare «fino al Giudizio» e paiono quindi delle anime espianti più che dannate, nonostante causino la morte dell’empio Wilherm[20] — come se ogni possibilità futura di ravvedimento, di pentimento fosse impensabile per lui, che già varie volte s’era rifiutato di vedere e ascoltare gli avvertimenti divini e umani.
Tra gli annegati invece, come si è visto, vanno posti i krierien, che sono quindi spesso anime in pena, senza pace, costrette a errare; troviamo anche in queste figure — ecco un’ulteriore analogia con le «lavandières de nuit» — quella certa ambiguità di condizioni, di atteggiamenti verso i vivi, che sovente caratterizza gli esseri del «Mondo intermedio» delle leggende bretoni, ed emerge talvolta maggiormente quando raffrontiamo le une con le altre le diverse tradizioni locali: possiamo sempre valutare in modo preciso se si tratti di «revenants» o di «spiriti notturni», di «anime in pena» o di «morti malevoli»/«dannati», di «anime erranti» per un periodo determinato o per l’eternità?
In effetti, anche il folclore bretone manifesta quelle discordanze tra la concezione cattolica dei tre luoghi dell’aldilà e le credenze popolari sulle anime dei morti, erranti perfino in eterno, credenze antichissime e attestate anche nel Medioevo, come Lecouteux e Marcq hanno così bene evidenziato [21].
Certo, a voler essere più precisi, si dovrebbe distinguere tra revenants e fantômes: i primi mantengono l’aspetto che avevano prima di morire, sono «corporei» (sia pure di una consistenza meno solida), fanno rumore, sono come dei «cadaveri viventi», possono apparire anche di giorno; i secondi sono «incorporei» e silenziosi, appaiono solo di notte, e così via. E ancora, bisognerebbe separare le «anime in pena» (ritornanti dal purgatorio) dalle «anime perse» (anime «confinate», vaganti, talora sotto forma di animale); oppure si potrebbero individuare e tenere sempre distinti due tipi di anime in pena: le “benefiche” (consapevoli della loro futura redenzione) e le “malefiche” (consapevoli della loro dannazione) [22].
Ma, come già s’è accennato, è vano cercare nei documenti folclorici una logica, una tendenza classificatoria o delle distinzioni nette: vi domina in genere una certa “confusione” o “indeterminatezza” [23].
Tutto sommato, per le kannerezed-noz a «fantasma» è senz’altro da preferire il termine «spettro», sia per la consistenza corporea, sia per i rumori e le parole (spesso) loro attribuiti, sia per la grande paura (pur non voluta) che generano in varie vittime delle storie esaminate [24].

 
[1] Cfr. A. Le Braz (1990): t. II, p. 239; Gw. Le Scouëzec (1989): 167-8 e (1986b): 126.

[2] Yann Brekilien definisce «Geni delle notti» tutti quegli esseri soprannaturali notturni — compreso Yannig an aod — diversi dalle anime dei defunti (anaon), tra le quali pone anche le kannerezed-noz [Y. Brekilien (1994): 228-32].
Ne Le folk-lore de France, P. Sébillot ritiene l’hoper-noz una specie di «lutin» [P. Sébillot (1968a): 158 e (1968): 347-8, 422-3]; colloca Yannig an aod dapprima tra gli annegati (seguendo Le Braz: cfr. infra la nota 5), poi tra gli «Hoppers», però col nome di Ian an Od (rifacendosi, a quanto pare, a Le Men) [P. Sébillot (1968): 138, 347-8].

[3] Cfr. Gw. Le Scouëzec (1986b): 126, Gw. Le Scouëzec (1989): 598-600, P.-Y. Sébillot (1997): 277. Dei krierien riferisce già Cambry nel suo Voyage dans le Finistère [Le Braz (1990): t. I, p. 398 (nota 1); J. Cambry (1993): 39, 290, 346].
P.-Y. Sébillot pone anche i krierien tra «Gli esseri fantastici delle notti», sui quali osserva: «Non si sa se sono degli spiriti o dei folletti, dei penitenti di Dio o degli accoliti dell’Inferno. Non si sa nemmeno da chi hanno il loro potere talvolta proteiforme; sono degli indipendenti» [P.-Y. Sébillot (1997): 273, 276-7, 279].

[4] A. Le Braz (1990): t. I, p. 402 (si veda anche la seguente).
Cfr. il «salvamento» da parte di un cristiano nel refrain cantato dalle «lavandaie» in Souvestre [→ 3ª parte].
P. Sébillot pone gli annegati e i krierien tra le «anime in pena» [P. Sébillot (1968): 12, 138-9]. Cfr. anche P.-Y. Sébillot (1998): 169, 195-6.

[5] A. Le Braz (1990): t. I, p. 404.

[6] A. Le Braz (1990): t. II, pp. 222-4; t. I, pp. LIII-LIV.

[7] A. Le Braz (1990): t. II, cap. XII, pp. 7-8. Cfr. P.-Y. Sébillot (1998): 193-4, 206.

[8] Anaon (medio br. anauon, nel 1499, e anaffon, nel XVI sec.) è un sostantivo plurale, traducibile con ‘(le anime dei) trapassati’ e derivato da un celt. *anamones ‘anime’; invece il cimr. annwfn ‘Altro Mondo, regno dei morti’ risalirebbe a un composto *ande-dubnos ‘mondo sotterraneo’ [A. Deshayes (2003), s. v. Anaon; X. Delamarre (2008), s. vv. anatia, antumnos].

[9] A. Le Braz (1990): t. II, cap. XIII, pp. 21, 25 sgg.; cap. XVI, pp. 101-2. Cfr. P.-Y. Sébillot (1998): 167-9, Y. Brekilien (1994): 236-37, F.-M.Luzel (2007): 21.

[10] A. Le Braz (1990): t. II, cap. XVII, pp. 113, 121, 146, 149; cap. VI, pp. 211, 225, 235-6. Cfr. P.-Y. Sébillot (1968a): 145 sgg., P.-Y. Sébillot (1998): 167-9, 181 sgg., 197 sgg., Y. Brekilien (1994): 239, F.-M.Luzel (2007): 20-1.

[11] A. Le Braz (1990): t. II, cap. X, p. 393.

[12] La parte interna della Bretagna, contrapposta all’Arvor, la parte marittima.

[13] A. Le Braz (1990): t. II, cap. XIX, pp. 203-6, 222-4, 234-8, 240-5. Delle «penitenze eterne» da compiersi sulla terra, P.-Y. Sébillot tratta in alcune pagine de La Bretagne et ses traditions [P.-Y. Sébillot (1998): 203-6].

[14] A. Le Braz (1990): t. II, cap. XX, pp. 251-2, 256. Cfr. quanto detto da Marillier a p. 448 dell’Appendice [A. Le Braz (1990): t. II], inoltre P.-Y. Sébillot (1998): 175-6 e F.-M.Luzel (2007): 21.

[15] A. Le Braz (1990): t. II, cap. XXI, p. 315. Cfr. Y. Brekilien (1994): 237-8.

[16] A. Le Braz (1990): t. I, Introduction, pp. LIV-LVII. Cfr: Y. Brekilien (1994): 241-2.

[17] A. Le Braz (1990): t. II, Appendice, p. 423.

[18] A. Le Braz (1990): t. II, Appendice, pp. 439-40.

[19] Secondo P.-Y. Sébillot, sono i morti che hanno meritato il Paradiso che «se donnent rendez-vous» la vigilia di Natale e le sere di S. Giovanni e di Ognissanti [P.-Y. Sébillot (1998): 168].

[20] In effetti, le «lavandaie», la notte (e non certo solo la vigilia del 2 novembre), frequentavano abitualmente il lavatoio presso il quale venne ritrovato morto Wilherm, tant’è vero che questi, arrivato al crocicchio, per tornarsene al villaggio aveva scelto la via più breve nonostante sapesse ch’era frequentata dai morti [Gw. Le Scouëzec (1986): 35]. L’elemento della vigilia della Festa dei Defunti serve dunque, più che altro, a mettere in rilievo le colpe di Wilherm Postik e a popolare i luoghi del racconto di un’infinità di morti.

[21] Cl. Lecouteux, Ph. Marcq (1990): 99, 116.
Pierre-Antoine Bernheim e Guy Stavridès, nel loro Paradiso Paradisi, riportano un passo tratto dal Manuel de folklore français contemporain (Paris 1946, I, 2, p. 791) di A. Van Gennep, in cui l’Autore afferma che «la convinzione che il morto può ritornare nel luogo dove aveva vissuto [...] fu fortissima in Francia presso quasi tutti i ceti sociali, e non si è attenuata che da un centinaio d’anni, con estrema lentezza tra i contadini, più rapidamente nelle città e nei centri operai» [P.-A. Bernheim, G. Stavridès (1994): 67].

[22] C. Lapucci (1991): 47; Cl. Lecouteux, Ph. Marcq (1990): 95, 97, 99, 151, 167-70, 191.

[23] Cfr. Cl. Lecouteux, Ph. Marcq (1990): 9-10 e C. Lapucci (1991): 231.
Alfonso M. Di Nola, riguardo alle «nozioni sui morti “tornanti”», parla di «labilità e indeterminatezza». Egli comunque distingue spettri, fantasmi, spiriti, «cadaveri viventi» [A. M. Di Nola (1993): 68-70].

[24] Si veda la nota precedente; cfr. inoltre C. Lapucci (1991): 125.
Sulle credenze folcloriche europee relative al ritorno dei morti e ai loro aspetti corporei (sete, fame, freddo...):
P. Sébillot (1990): 121-7.
Sui morti, gli spettri, i «doppi» nel Medioevo e nel folclore: M. Vovelle (1986): 22-30 e altre sgg., passim; sulle anime e gli spettri nel Medioevo, in riferimento specialmente alle concezioni della Chiesa e dei “letterati”: J.-Cl. Schmitt (1988): 182-205 e J. Le Goff (1982).
Nel folclore bretone, mi risulta siano del tutto assenti i vampiri, cioè quei redivivi o «non-morti» che assalgono i vivi al torace, lo mordono ma non sempre succhiano il sangue. D’altra parte in A. Le Braz (1990): t. I, p. 327 (nota), vien rilevato che in Bretagna i «revenants sanguinaires» son rari, mentre s’incontran di frequente nelle leggende irlandesi, in una delle quali si narra perfino di una donna che ritorna a divorare il marito (di un altro racconto riferito da Curtin — quello del morto portato sulle spalle — ho già detto nella “10ª parte” ).
Sono comunque ben presenti ne La Légende de la Mort, quei morti specifici che nelle tradizioni popolari di altri Paesi son ritenuti pericolosi e potenzialmente dei vampiri, vale a dire quelli privi di sepoltura e/o trapassati prematuramente: assassinati, impiccati, annegati (meno rappresentati i suicidi). E proprio nei casi di omicidio e annegamento compare un elemento tipico delle credenze sui vampiri, il sangue ancora fluido che fuoriesce dal cadavere [A. Le Braz (1990): t. I, pp. 354, 396, t. II, p. 2; P. Barber (1994): 68, 168, 216].

lunedì 21 febbraio 2011

Le kannerezed-noz. 12ª parte



Approfondimenti: l’ambientazione

Nei racconti esaminati si ritrova quel legame con i luoghi che caratterizza le leggende [1]. I personaggi agiscono o subiscono l’azione dei loro avversari in luoghi precisi, noti o rintracciabili dai destinatari delle storie; luoghi appena accennati o sommariamente descritti oppure dipinti con ricchezza di particolari, a seconda dell’estro e della capacità del narratore, cui in alcuni casi il raccoglitore-traduttore si sovrappone con il suo stile e le sue inclinazioni letterarie.
Infatti, per quanto attiene alla geografia della Bretagna, nei sei racconti riportati nel Catalogue di Jean Berthou [Les Lavandières de nuit (Souvestre), Celle qui lavait la nuit (Le Braz), La Lavandière de Nuit (Luzel), Les Lavandières de Nuit (Cadic), Les Lavandières de Nuit e La Lavandière des Noes Gourdais (P. Sébillot)], e negli altri tre raccolti rispettivamente da Le Braz e Luzel — L’intersigne de «l’étang»; La lavandière de nuit (et Soëzic ar Floc’h), La lavandière de nuit du douet de Plougonven —, si riscontra che:
– in quattro, le località in cui avvengono i (o una parte dei) fatti sono esplicitamente indicate dal narratore o dal raccoglitore (Cadic: Brennilis; P. Sébillot: Noes Gourdais; L’intersigne de «l’étang»: Kergogn; Luzel: Plougonven);
– in uno, ma forse in altri due, non vengono nominate ma si possono congetturare deducendole da informazioni relative al narratore o al luogo di registrazione (Souvestre: Guissény; Le Braz: Plougastel-Daoulas?; La Lavandière de Nuit (Luzel): Plouaret?);
– in due viene menzionato un luogo a breve distanza [L’intersigne de «l’étang»: Kergogn; La lavandière de nuit (et Soëzic ar Floc’h): la fattoria del Loguellou (Botsorhel)];
– in tre casi vien menzionato un centro (più o meno) vicino più importante (La Lavandière de Nuit (Luzel): Morlaix; P. Sébillot: Dinan; L’intersigne de «l’étang»: Penhars);
– di due racconti comunque si conosce almeno la “provincia tradizionale” [2] di appartenenza e/o il paese natio di un personaggio — in un caso però secondario — (Souvestre: Léon, Henvik; Le Braz: Cornouaille, Saint-Tremeur).
In dieci altre testimonianze, sufficientemente dettagliate sul piano spazio-temporale e relative a credenze bretoni locali [Le Men, Luzel (Pont-ar-Goazcan), Cadic (3), de Cerny, E. Berthou (2), Plourin e Commana (ricordi recenti)], si osserva una maggior omogeneità e certezza nei dati specifici:
– in nove compaiono centri abitati/luoghi geografici ben precisi in cui si pensava ci fossero delle «lavandaie» (de Cerny: Dinan; Cadic: Plouharnel, Vréguézel, Brennilis; E. Berthou: Pleubian, Lanmodez; Plourin, Commana; Luzel: Pont-ar-Goazcan);
– in una si nomina solo la “provincia tradizionale” di massima diffusione (Le Men: Léon).

Dargent- 2Non in tutti i nove racconti poi, i luoghi d’azione sono tratteggiati con dovizia di elementi descrittivi. Les Lavandières de nuit (Souvestre) risulta il più ricco, per la presenza di dati appartenenti sia alla sfera visiva sia a quella uditiva: le vie, le croci, le ginestre, il buio della notte senza luna né stelle, le foglie morte, il tremolar dei cespugli, il maniero in rovina, le pietre del torrente, la quercia morta; il canto, il risuonar degli zoccoli [3] sui ciottoli, il vento, le fonti, la banderuola, la cascata, i rintocchi della mezzanotte..., elementi che sono già numerosi anche senza quelli relativi al luoghi d’incontro con l’Ankou e con le kannerezed-noz (la douez, cioè il lavatoio, e le sue immediate vicinanze).
In Celle qui lavait la nuit (Le Braz), nella prima parte è predominante la componente uditiva (il silenzio della notte rotto dai rumori del bucato e dai colloqui delle due lavandaie) in confronto all’essenzialità degli aspetti visivi (il chiaro di luna, il fiume, la biancheria); nella seconda parte invece lo scenario è più dettagliato: il letto (bank-tossel), la cucina con il focolare e gli utensili, la soglia, la porta.
Ne L’intersigne de «l’étang» (Le Braz) invece, rispetto alla componente uditiva grossomodo ridotta al dialogo tra Josik e la lavandaia, prevalgono di gran lunga gli elementi visivi: lo stagno, il chiaro di luna che ne fa brillare la superficie, la strada, la cava, la cuffia e il costume della lavandaia, la sua cassetta di legno, il lenzuolo che si allarga fino a coprire tutto lo stagno; il focolare, la scodella di zuppa, lo sgabello, la luce della candela.
Ne La Lavandière de Nuit (Luzel) l’ambiente è costituito dalla casa (con l’arcolaio, l’orologio, il focolare, il letto, la porta, il pavimento [di terra battuta] e tutte le cose usate dalla «sorcière»), il retro (il cortile con un ripostiglio), il lavatoio, la fontana, con una netta predominanza del visivo (non manca nemmeno il chiaro di luna) sulI’uditivo, limitato alle voci e ai rumori fatti dalle donne.
Ne La lavandière de nuit (et Soëzic ar Floc’h), sono menzionati solo gli elementi principali dell’ambientazione (il prato, il boschetto, lo stagno, il ruscelletto, la casa lungo il cammino) e i tre colpi violentissimi della lavandaia sulle pietre del lavatoio; mentre ne La lavandière de nuit du douet de Plougonven, nell’insieme abbiamo una maggiore presenza di particolari descrittivi: il chiaro di luna, il ruscello, la passerella di legno, lo stagno, il prato, la strada, la scarpata, la larga mestola della lavandaia, la chaumière, gli zoccoli e il cappello, la pietra del lavatoio; i forti colpi della mestola, la mestola scagliata contro la porta che va in pezzi.
In Cadic è accennato soltanto il fiume (che diventa rosso per il sangue della prima kannerez-noz), in P. Sébillot il lavatoio, con il prato circostante.
Anche nelle altre testimonianze — escluse quelle ricordate, sommariamente, da Paul e Paul-Yves Sébillot ne Le folk-lore de France e La Bretagne et ses traditions, e anche Les lavandiéres de nuit de Pont-ar-Goazcan — son presenti per lo più gli elementi essenziali: fiumi, lavatoi, strade... Qualche particolare in più in Cadic: gli alberi oscillanti (Poul-er-Pont), e soprattutto in de Cerny: stagni, ruscelli, canali e alzaie, le mura e le torri di Dinan, l’acqua della Rance «fosforescente» (e i luoghi frequentati dai gatti).

In realtà, anche in queste leggende non vi è una descrizione esatta, oggettiva, strutturata nelle sue parti, del luogo d’azione, ma piuttosto l’accenno ad alcune componenti di un quadro (si potrebbe parlare di suggestione ambientale, più che di ricostruzione) che potremmo ritrovare in chissà quanti luoghi reali della Bretagna, se non sapessimo che le vicende sono riferite dai narratori a luoghi (di solito) geograficamente determinati. Se dunque vi è determinatezza nelle strutture spaziali, è soprattutto perché i vari elementi — concreti sì, ma di per sé comuni, topograficamente generici — nel loro insieme sono attribuiti a luoghi determinati, quasi sempre denominati con il loro toponimo.
Prendiamo in considerazione, ad esempio, proprio Les Lavandières de nuit raccolta da Souvestre. Centottanta anni fa, più persone forse, sulla base degli elementi descrittivi inseriti nel racconto, avrebbero potuto riconoscere nella rappresentazione dei luoghi (prossimi a Guissény?) nei quali si svolge la vicenda di Wilherm Postik, qualcosa di familiare, vale a dire delle particolarità geografico-ambientali uguali o simili a quelle dei luoghi della loro esistenza, passata o presente. Il narratore però — un abitante di Guissény — ha presumibilmente arricchito la storia di dettagli funzionali al raccontare stesso, anche allo scopo di accrescere l’emozione del proprio uditorio. E coincidendo questo, nell’atto della registrazione, con il raccoglitore, il narratore ha potuto descrivere il percorso del protagonista indicando i luoghi, reali o verosimili che siano, ma non gli eventuali toponimi [4], eccezion fatta per Henvik (attuale Henvic), il paese di Fantik ar Fur.
Qualcosa di simile deve essere accaduto nel caso delle altre testimonianze, quando queste non contengano alcun microtoponimo.

Anche i riferimenti temporali, nei racconti bretoni in esame, risultano quelli tipici delle leggende. Hanno infatti la concretezza del vissuto, dell’esperienza personale e collettiva.
Bisogna tuttavia anche in questo caso distinguere tra testimonianza e testimonianza. Vi è però innanzi tutto un aspetto comune: tutte le vicende si svolgono dopo il tramonto o di notte (ne La lavandière de nuit du douet de Plougonven terminano però a giorno inoltrato), la qual cosa — come ben si sa — dipende sia dal fatto che le «lavandaie» sono esseri della notte sia dai particolari comportamenti dei protagonisti delle storie, i quali non rispettano la regola generale (e i consigli dei vecchi o di chi ha maggior esperienza e buon senso): non si deve andare in giro di notte né lavorare (specialmente all’esterno) quando si dovrebbe essere a letto [5].
I racconti si differenziano invece quanto a ore, durata, giorni e mesi o stagioni particolari. Tutte le nove storie, tranne quella di Souvestre e La lavandière de nuit du douet de Plougonven, si svolgono sicuramente o presumibilmente durante la bella stagione. Solo in una (Celle qui lavait la nuit) si fa esplicito riferimento all’estate (il mese d’agosto), mentre ne La lavandière de nuit (et Soëzic ar Floc’h) è indicato il mese d’aprile; nelle altre l’assenza di particolari relativi al freddo, a perturbazioni atmosferiche, ad abiti pesanti, e il fatto che le protagoniste escano — e soprattutto per andare a lavare — di sera o di notte, fanno propendere per un contesto estivo (o almeno primaverile: ne L’intersigne de «l’étang» Josik indossa il mantello per uscire).
Differente situazione si ha invece in Souvestre, poiché — come s’è visto [→ e 8ª parte] — il dramma di Wilherm si compie alla vigilia del 2 novembre, vale a dire la sera di Ognissanti, quando i defunti ritornano tra i vivi ed entrano nelle ioro case di un tempo per riscaldarsi e consumare il «pasto dei morti», che un tempo i Bretoni preparavano per i propri cari prima di coricarsi. Inoltre, se diversamente da quasi tutte le leggende (fa eccezione quella di Jeannic C. di Brennilis) le «lavandaie di notte» ne Les Lavandières de nuit sono più d’una — anzi sono numerose e presenti in ogni lavatoio della vallata, lungo ogni siepe, sulla parte alta di ogni landa —, è perché il protagonista-vittima se ne va in giro non in una notte qualsiasi (della bella o della brutta stagione), ma proprio in quella di Ognissanti, la festa cristiana che, aggiunta per anteposizione al Giorno dei Defunti, ha preso il posto di quella pagana, presumibilmente simile alla festa di Samain (Primo Novembre) dei testi irlandesi [6].
La storia di Wilherm — non per niente la più complessa e strutturata — è in effetti quella caratterizzata dai riferimenti temporali più precisi e dettagliati, ed inoltre dalla durata maggiore (sulle 14 ore): il protagonista si reca nel paese vicino verso sera, ci resta fino alle 23 circa, incontra l’Ankou subito dopo mezzanotte e le kannerezed­-noz successivamente, e infine viene ritrovato cadavere da Fantik ar Fur all’alba.
Negli altri racconti le strutture temporali sono per lo più limitate al trascorrere di qualche ora serale o notturna.
In Celle qui lavait la nuit (Le Braz) e in Cadic (l’episodio di Jeannic C. di Brennilis) i fatti hanno luogo di sera: iniziano dopo il tramonto e terminano rispettivamente all’incirca dopo 3-4 (entro la mezzanotte) e 1-2 ore. Ne L’intersigne de «l’étang» (Le Braz) la storia inizia all’ora di cena e si conclude durante la notte (l’ora non è specificata); ne La lavandière de nuit et Soëzic ar Floc’h (Luzel) ha inizio alle nove circa, per una durata presumibile di 1-2 ore. Ne La Lavandière de Nuit (Luzel) le vicende vere e proprie si svolgono di notte, dopo le 23 e prima dell’alba (forse 4-5 ore in tutto); ne La lavandière de nuit du douet de Plougonven invece, l’avventura ha luogo tra le 2-3 di notte e il pieno giorno (forse per un periodo complessivo di 6-7 ore). In P. Sébillot vi è differenza tra un racconto (Les Lavandières de Nuitla mère Paillasse) e l’altro (La Lavandière des Noes Gourdaisune femme de journée): nel primo i fatti avvengono tra la sera e le 2 di notte circa (presumo una durata di 5-6 ore), nel secondo da prima dell’alba in poi, per una durata, credo, di all’incirca due ore.

Nelle altre testimonianze, vale a dire le dieci che contengono più che altro delle credenze, riguardo ai riferimenti temporali si rileva grosso modo la stessa essenzialità evidenziata nei dati spaziali. Infatti in genere non si va oltre l’accenno alla sera o alla notte, o al massimo alI’imbrunire (in E. Berthou e nella testimonianza raccolta a Plourin). Unicamente in Le Men è riferito l’elemento particolare del bucato fatto solo durante le ore dispari. Va qui ricordato ancora una volta [→ 6ª parte] che ne La Légende de la mort è riportata la convinzione presumibilmente diffusa in tutta la Bretagna, che per evitare danni, se proprio si deve passare attraverso un cimitero, è bene farlo solo nelle ore dispari [7]. Purtroppo né Le Braz né, in nota, Dottin ci forniscono ulteriori ragguagli su questa precauzione [8].

Per quanto concerne riferimenti temporali cronologicamente determinati, “assoluti”, c’è da dire che nel complesso i diversi documenti bretoni in esame di per sé non ne contengono. Credenze e racconti infatti appartengono in tutto e per tutto al periodo storico durante il quale sono stati messi per iscritto — la maggior parte tra il 1830 e il 1900 ­—, tant’è che in un caso, Luzel [→ e 6ª parte], il cenno alla velocità delle macchine a vapore conferma l’appartenenza del narratore al 1800, o tutt’al più potrebbe consentire una “retrodatazione” della prima narrazione contenente quel particolare, di qualche decennio rispetto all’anno di registrazione, il 1890. Sta di fatto che quel cenno è, se non vado errato, l’unica allusione alla Rivoluzione industriaIe presente nei testi dei raccoglitori di testimonianze sulle «lavandaie» bretoni presi in considerazione [9]; sotto l’aspetto della “cultura materiale”, dell’economia e della tecnologia agraria, il mondo in cui vivono i personaggi delle storie (ma la cosa sembra valere anche per gli informatori), non dovrebbe essere dissimile da quello in cui credo vivessero i Bretoni del 1700: una società rurale, in cui è possibile per le donne risparmiare sulle spese della famiglia o incrementarne le entrate attraverso l’attività di lavandaia o quella domestica della filatura (non della tessitura, che veniva svolta da tessitori di mestiere) [10].
Anche là dove ci si aspetterebbe una maggiore precisione relativa agli anni o per lo meno ai decenni — i ricordi recenti di alcune signore di Plourin e Commana —, siamo sprovvisti di dati cronologicamente precisati, e si è stati costretti a parlare, supra [→ 8ª parte], di convinzioni e atteggiamenti risalenti approssimativamente a 50-70 anni fa. Meno imprecisi, comunque, risultano i riferimenti cronologici contenuti nei ricordi di Erwan Berthou, risalenti all’incirca al periodo 1865-1910, ma si tratta appunto di un’altra rievocazione (in questo caso, meno recente) di comportamenti e sentimenti.

Come ho ricordato di volta in volta, in più storie compare il motivo del chiaro di luna: in Le Braz (Celle qui lavait la nuit, L’intersigne de «l’étang»), Luzel (La Lavandière de nuit, La lavandière de nuit du douet de Plougonven [11], e anche la testimonianza di Laouic Mihiac [12]), P. Sébillot (la mère Paillasse). Tutto sommato credo sia un elemento funzionale alla descrizione ambientale: innanzi tutto proprio perché in Souvestre è presente la situazione opposta: «la notte era senza luna e senza stelle».
Non che in Bretagna fossero di poca o nessuna importanza la presenza, l’influsso, le fasi della luna, tant’è vero che Anatole Le Braz riferisce la convinzione che un bimbo nato di notte con la luna stretta attorno o coperta diffusamente da nuvole, sarebbe morto impiccato o annegato [13]. Ma non mi risulta alcuna particolare connessione folclorica tra le «lavandaie» bretoni e il chiaro di luna, al di là del fatto che dove si narra di esseri della notte incontrati da viandanti o lavandaie sia prevedibile la presenza dell’astro notturno ad illuminare luoghi e attività umane svolte appunto di notte, e che — stando a quanto riporta É. Mozzani — in Bretagna si credesse che la biancheria lavata con la luna nuova, si sarebbe ristretta, logorata e strappata [14].
D’altronde, le credenze sugli influssi della luna, che fan parte dell’astrologia popolare (non solo contadina) simile un po’ in tutta Europa, e sono giunte sino a noi dall’antichità precristiana attraverso il Medioevo e l’Evo Moderno, hanno sempre appartenuto a quel particolare sapere folclorico che, per quanto sia stato osteggiato dalla Chiesa come superstizione assieme ai culti di origina pagana, è riuscito a conservarsi, almeno in parte, fino ai nostri giorni nei lunari e nei proverbi del mondo contadino.


[1] Cfr. G. L. Beccaria (1987): 17-8; T. Gatto Chanu (1989): 20.

[2] In bretone, bro = francese pays.

[3] Nella traduzione gli «zoccoli» (galoches) di Wilherm sono diventati «stivali», le «fonti» (sources) «ruscelli» [cfr. Gw. Le Scouëzec (1986): 35].

[4] Si confronti, come esempio, il lavatoio di questo racconto, chiamato semplicemente «le lavoir», «la douéz», con le doué des Noes Gourdais delle due storie riferite da P. Sébillot.

[5] Cfr. A. Le Braz (1990): t. II, p. 24.

[6] In irlandese corrente Samhain è il mese di ‘novembre’. Samain è confrontabile con Samonios, il nome gallico del primo mese del calendario di Coligny [X. Delamarre (2008): 265-6].

[7] A. Le Braz (1990): t. I, p. 301; P. Sébillot (1968c): 134.
P. Sébillot riferisce inoltre che nella Gironde e nella Beauce si riteneva che le ore dispari fossero le più pericolose della notte, e in Bassa Bretagna fossero quelle in cui i folletti potevano «exercer leur malice» [P. Sébillot (1968a): 145; cfr. anche É. Mozzani (1995): 1226, 1240].

[8] Sulla necessità di utilizzare, in determinate attività, particolari cose di numero dispari, cfr. P. Sébillot (1968b): 193 (uccelli), 230 (uova), 241 (maléfice amoureux; ora), 387 (bastoni dei pastori) e P. Sébillot (1968c): 77 (colliers talismans).
É. Mozzani ricorda come, per lo più, i numeri dispari vengano ritenuti quelli fortunati [É. Mozzani (1995): 1225-6].

[9] Si accenna a «la rapidité et le ronflement des machines à vapeur» in un paragone contenuto in un’altra leggenda narrata, in bretone, a Luzel da François Thépaut (il 17 febbraio 1890): La dame blanche [F.-M. Luzel (1995): 164].

[10] Nel racconto Le linceul de Marie-Jeanne, si narra che questa filava il lino ma lo faceva tessere dal «tisserand du bourg» [A. Le Braz (1990): t. I, p. 336]. Cfr. anche F.-M.Luzel (2007): 187.

[11] F.-M.Luzel (2007): 215.

[12] F.-M.Luzel (2007): 225.

[13] A. Le Braz (1990): t. l, p. 391.
Alle pp. 249-50 del II tomo, si narra di una morta che ritorna tutte le notti finché non appare la luna nuova.
P. Sébillot riferisce credenze relative a punizioni verso ragazze e donne incinte bretoni che non si nascondono allo sguardo della luna «quando soddisfano un bisogno naturale», e casi di venerazione della luna — ­Pater noster recitato alla luna nuova — attestati in Bretagna per gli anni attorno al 1620 [P. Sébillot (1968a): 41-2; P. Sébillot (1990): 178-9; cfr. anche Gw. Le Scouëzec (1986b): 174, É. Mozzani (1995): 1030-2, P.-Y. Sébillot (1998): 288].
Sull’importanza della luna nella cultura degli antichi popoli celtici e nel folclore dei paesi celtici: P. Sébillot (1968a): 41-7; P. Sébillot (1968c): 58; J. de Vries (1982): 167-9; J. Chevalier, A. Gheerbrant (1986): s. v. Luna (pp. 46-7); F. Le Roux, Ch.-J. Guyonvarc’h (1986): 135-6, 138-9, 141, 260; P. Sébillot (1990): 178-80; M. J. Green (1992): 153-4; J. C. Davies (1992): 219-21; P.-Y. Sébillot (1998): 288-9; Ph. Jouët (2007): 80, 244, 399 (nota 17).

[14] É. Mozzani (1995): 970, 1031.
Sono le fate che al chiaro di luna compiono «des gestes assez nombreux» [P. Sébillot (1968a): 144].
Un esempio bretone di azione magica per la quale la luna piena era indispensabile: bagnandosi il dito mignolo della mano sinistra in una fontana a Saint-Samson, presso Dinan, a mezzanotte e con la luna piena, si credeva di ottenere una forza straordinaria [P. Sébillot (1968): 237].

mercoledì 9 febbraio 2011

Le kannerezed-noz. 11ª parte



Approfondimenti: la morte delle vittime

Nel Voyage dans le Finistère (1799), Jacques Cambry riferisce una diversa tradizione sulle «lavandaie della notte» [→ 2ª parte], nella quale le kannerezed invitano a strizzare i loro panni, ma spezzano le bracciacasser = ‘rompere le ossa’ — solo nel caso in cui chi le aiuta lo faccia di mala grazia, mentre affogano chi le respinge: «Les laveuses, ar Cannerez-noz (les chanteuses des nuit), qui vous invitent à tordre leurs linges, qui vous cassent les bras si vous les aidez de mauvaise grâce, qui vous noyent si vous les refusez, vous portent à la charité, etc. etc.» [1].
Da questa sola testimonianza, che a Jean Berthou risulta essere «la prima traccia scritta della leggenda», si potrebbe arguire pertanto, che nel XVIII secolo nel Finistère si credesse che quanti avessero aiutato le «lavandaie» con gentilezza e benevolenza non solo avrebbero avuto salva la vita, ma anche non avrebbero subito alcun danno fisico.

Alle lavandaie del passo di Cambry si possono accostare quelle che si trovano presso il ponte di Planche, le quali impongono la torcitura e «spezzano gli arti» («brisent les membres») ai giovani passanti che a mezzanotte osino rispondere ai loro lazzi; e in parte anche la cannerez-nooz che finisce per mozzar le mani («couper les mains» [2]) ai viaggiatori cui presenta un lenzuolo da strizzare [→ 5ª parte].

Di una particolare «lavandaia» si parla in un’altra leggenda, narrata da François Marquer (in Revue des Traditions populaires, t. VII, p. 69) e menzionata sia da A. Le Braz [3] sia da P. Sébillot [→ 5ª parte]: l’anima di una donna epilettica annegata fa la sua penitenza nel luogo in cui è morta, al ponte di Saint-Gérand (nei paraggi del ponte di Kergoet, nel Morbihan, secondo P. Sébillot), dove lava la sua biancheria e potrebbe trascinare nell’acqua del canale un passante qualora riuscisse a toccarlo.
Abbiamo in questi due casi dei revenants malevoli che pur essendo delle lavandaie, sono caratterizzati da un diverso rapporto con l’acqua [4], nella quale appunto arrivano ad affogare alcune loro vittime. La «lavandaia» penitente del ponte di Saint-Gérand, inoltre, essendo morta annegata può esser fatta rientrare nella categoria de les noyés di cui Le Braz si occupa alle pp. 391-427 del I tomo de La Légende de la Mort, e P.-Y. Sébillot precisa che «restano a far penitenza nel luogo nel quale sono stati inghiottiti fino a che altri anneghino al loro posto» [5]. Tutto ciò invece non mi pare sia pertinente per le kannerezed descritte da Cambry [6].

Già Souvestre in effetti, nel 1835 — dopo appena trentasei anni dalla prima pubblicazione —, nella riedizione del Voyage da lui stesso curata aveva precisato: «Cambry travisa la superstizione delle Cannerez-nos. Si dice, nel paese, che queste lavandaie notturne vi costringono ad aiutarle a torcere la biancheria; ma che bisogna aver cura di torcere nel loro medesimo senso, perché, se si torce nel senso inverso, vi rompono le due braccia» [7]. È chiaro che qui Souvestre, correggendo Cambry, nega innanzi tutto l’eventualità che le «lavandaie» affoghino le loro vittime; e in secondo luogo, afferma che queste sono obbligate — e non invitate — a torcere e subiscono perciò in ogni caso la rottura delle braccia («les deux bras»), a meno che non riescano (fino in fondo) a girare la biancheria nello stesso senso delle «lavandaie notturne».
In realtà, se confrontiamo questo quadro con quello delineato nella storia di Wilherm Postik (Les Lavandières de nuit [→ 3ª parte]), notiamo una differenza non so quanto sostanziale: se è vero che le «lavandaie» non invitano, ma gridano di torcere i sudari, lo è altrettanto il fatto che la stretta del lenzuolo girato in senso contrario causa la morte di Wilherm per stritolamento/schiacciamento («il tomba broyé»), e quindi non soltanto la rottura delle braccia — lesione questa, che di per sé non è detto comportasse, nell’Ottocento, il decesso della persona colpita. Né d’altra parte alla fine del racconto Fantik ar Fur, la ragazza che trova morto Wilherm, scorge del sangue attorno o sotto il suo corpo, bensì pensa debba trattarsi di un ubriaco addormentatosi sotto le stelle.

Analizzando e mettendo a confronto le diverse tradizioni si è già visto come, anche negli altri testi esaminati, le conclusioni degli incontri con le «lavandaie» siano differenti, talvolta perfino all’interno di una stessa testimonianza.
È prevista la rottura delle braccia in Le Men («rompre les bras»), per la quale quel folclorista usa il termine supplice. Poiché questo in francese ha i significati di ‘supplizio’, ‘pena capitale’, ‘pena tremenda’, ‘sofferenza molto viva’, sarebbe ragionevole interpretare il danno subito dalla vittima come una grave menomazione temporanea oppure permanente, considerando che «rompere le braccia» corrisponde più a “fratturare” che non a “stritolare, schiacciare”. Ma non si può escludere che con «rompere le braccia» si intendesse “ammazzare”, che cioè quell’espressione fosse molto simile a “rompere il collo” (e Jean Berthou, come ha avuto occasione di comunicarmi personalmente [8], è proprio dell’avviso che le «lavandaie» delle credenze riferite da Le Men, uccidano le proprie vittime).
In Cadic, Jeannic C. teme che le kannerezed possano torcerla come fanno con la biancheria, la qual cosa suggerisce piuttosto una morte per stritolamento. Questa è invece esplicitamente indicata in de Cerny per chi, imprudente o spaccone, passando accanto alle «lavandières» o avendo cercato di fuggire, venga catturato e obbligato a strizzare i loro lenzuoli: tutto il corpo («les bras, le corps, les jambes») viene torto come fosse una corda e, ridotto in poltiglia (bouillie), gettato in acqua. Chi poi volesse sfuggire la stretta mortale, non riuscirebbe a evitare una fine analoga: infatti in questo caso le «lavandaie» lo picchierebbero a sangue con le loro mestole.
Un decesso per stritolamento va pure ipotizzato per Tanic Kloarec, vittima de Les lavandiéres de nuit de Pont-ar-Goazcan (Luzel): «elles lui tordent les bras, puis tout le corps» [→ 4ª parte].
Anche per le fanciulle di Commana, inoltre, le tanto temute «lavandaie della notte» erano solite stritolare le loro vittime: «les petites filles étaient terrorisées à l’idée d’être broyées par les femmes-spectres», come ci informa Jean Berthou.

Sono dunque cinque [9], compresa Les Lavandières de nuit, le testimonianze in cui le «lavandaie» stritolano/schiacciano le vittime, cioè causano sicuramente la loro morte, e in qualche caso (se non altro in de Cerny) una prevedibile fuoriuscita di sangue [10].
Il verbo broyer, che per I’appunto in genere si è tradotto con «stritolare», viene usato da Le Braz nel capitolo su Les morts malfaisants, là dove (a p. 205 del II tomo) racconta di un morto il quale, a un sarto che con il suo ago aveva fatto il segno della croce, gridò scomparendo: «Se tu non avessi avuto il tuo ago, avrei fatto di te un uomo (ti avrei stritolato)!» [11].
La locuzione «fare di te un uomo» viene usata da Le Braz in altre due storie: in Iannic-ann-ôd (narrata da René Alain — ­Quimper, 1889) si racconta di un bracciante buontempone al quale, essendogli sfuggito, Iannic-ann-ôd promette che la prossima volta avrebbe fatto di lui un uomo (in un’altra pagina Le Braz ricorda che Iannic «rompe il collo» a chi arriva a prendere); ne La fille à la robe rouge (narrata da Louise Cosquer — Kerfeunteun) una revenante trasformata in cane nero fa presente a un bracciante che la tiene con una corda e riesce a non farsela scappare: «se avessi potuto sottrarmi alle tue mani, avrei fatto di te un uomo» [12]. Presumo che «fare di te un uomo» sia un’espressione ironica, forse traduzione di un modo di dire bretone ottocentesco o più antico, significante all’incirca ‘ammazzare (con le proprie mani, riempiendo di botte...)’.

Rischiano di venir bastonati a morte dalle mestole delle «lavandaie» i tre giovani del racconto La lavandière de nuit du douet de Plougonven (Luzel) [→ 4ª parte], e le vittime delle lavandaie della testimonianza della de Cerny, quando, costrette da loro a torcere un lenzuolo, lo girano nello stesso senso [→ 8ª parte]. Si tratta di un modo di uccisione aggiuntivo o di ripiego, messo in atto nel primo caso da una lavandaia che, per far pagare la sfrontatezza ai tre giovani nel frattempo fuggiti a gambe levate, ha dovuto afferrare la mestola e inseguirli lontano dal lavatoio.

In altri due testi del Catalogo di Jean Berthou le «lavandaie» invece torcono le braccia: «[...] les bras eux-mêmes sont tordus» (E. Berthou); Ar C’hannerezed-noz a wee o divrec’h, «Les Lavandières de nuit tordaient leurs bras» (Gros). Dato che tordre significa ‘storcere, provocare una distorsione, slogare’, è evidente che qui le «lavandaie» causano piuttosto un trauma articolare, probabilmente alquanto grave, tale cioè da procurare una menomazione ai malcapitati loro vittime.

Al contrario, nella storia di Fanta Lezoualc’h (Le Braz), contenuta nella Légende de la Mort, non si indica come esito finale alcuna distorsione/rottura, né stritolamento — non c’è infatti torcitura collettiva conclusiva di biancheria — o diverso danno specifico, ma si fa solo intuire “una brutta fine” per Fanta.
D’altra parte, mentre la «lavandaia della notte» in questo racconto viene chiamata maouès-noz e invece semplicemente lavandière in quello intitolato L’intersigne de «l’étang» — ove appunto si ha a che fare unicamente con una messaggera di morte [→ 7ª parte] —, stando poi a Cambry (e può darsi pure a quanto detto da Le Braz stesso nella sua introduzione, a p. LIV) risulta fosse usata anche nel Finistère la denominazione kannerez-noz, molto più diffusa nella Bretagna bretonnante per chiamare quei particolari esseri femminili notturni.
E per di più, nell’introduzione alla prima edizione Léon Marillier ci presenta una differente maouez-noz, più simile nel comportamento alle kannerezed-noz tipiche: essa «costringe il malcapitato a sfinirsi» nell’attività di strizzare la biancheria, per cui «al mattino lo si ritrova disteso sul prato morto o svenuto» [13].
Anche in questa caso — come nei racconti in cui danzatori soprannaturali sfibrano fino alla morte le loro vittime — le «lavandaie» non schiacciano o spezzano, ma esauriscono le forze di chi deve loro obbedire, che tuttavia non sempre muore — e s’è visto sopra come altre vittime non è detto vengano uccise dalla stretta delle «lavandières».
Rimane dunque insoluta la questione della “fine” che avrebbe potuto fare Fanta né d’altra parte la risposta può essere fornita ricorrendo alla storia riportata da Luzel (La Lavandière de Nuit), là dove la «sorcière» manifesta ai due sposi la sua volontà, ormai delusa, di bollire Marianna e il figlio nel calderone, misfatto che, grosso modo (come s’è accennato [→ 6ª parte]), può esser ritenuto peculiare per una strega. Vi possiamo infatti riconoscere, sia pure con qualche differenza non trascurabile, due elementi propri della stregoneria (di epoca medievale e moderna): l’infanticidio, la caldaia. Questi appunto, strettamente connessi, si ritrovano anche nella storia di Marianna: la «strega» vorrebbe bollire non solo la donna ma anche suo figlio — in talune testimonianze, sia del Medioevo che dell’Età Moderna, le streghe risultano uccidere e divorare i bambini, soprattutto non ancora battezzati (ne succhiavano inoltre il sangue e con il grasso o altro fabbricavano alcuni unguenti) —; verrebbe usata la pentola del bucato — come si legge in documenti e scritti vari, compresi testi letterari e folclorici (e vediamo in alcune immagini dei secoli XVII-XVIII), per preparare intrugli e pozioni le streghe utilizzavano, oltre a crogioli e pentole, delle caldaie, probabilmente quelle stesse nella quali secondo alcune fonti venivano bolliti i corpicini dei lattanti [14].

Proviamo ora ad estendere un po’ l’indagine e il confronto, alla ricerca di eventuali analogie anche in altre tradizioni, di antica o contemporanea attestazione.
Lo stritolamento o schiacciamento operato dalle «lavandaie» bretoni — ammettendo che i narratori intendessero broyer come “rompere in pezzi (o ridurre in poltiglia) internamente”— si può forse confrontare con lo stritolamento delle ossa minacciato da Thor a Loki in Lokasenna str. 61:
Taci, o essere snaturato! Se no il mio martello
Miollnir ti toglierà la voce:
la mia mano destra ti colpirà coll’uccisor di Hrungnir,
così da stritolarti tutte le ossa. [15]
Ben diverso risulta invece lo schiacciamento provocato dagli incubi. A tale proposito, nella stessa Légende de la Mort, nel capitolo dedicato ai morti malefici, ho rintracciato — nel racconto La rancune du premier mari — un caso di un morto che si comporta come un incubo: questi si mette a cavalcioni sul petto di un vivo e gli stringe i fianchi, fino a farne divenire il respiro una specie di rantolo, ma senza ucciderlo [16].
Anche in un altro caso non ancora ricordato, un morto malefico non sopprime la propria vittima: un guardiano di faro (ne L’Esprit du phare [17]), colpito con gran violenza al petto, perde i sensi, viene poi tempestato di colpi, e rinviene tutto pesto (moulu), quasi ridotto in poltiglia (bouillie, termine che abbiamo già trovato in de Cerny), dunque non broyé. Invece si rammenta più avanti che un revenant scongiurato fatto entrare in un corpo di animale, può afferrare e trascinare sotto terra un passante [18].
Non sono molte in effetti le situazioni di morti malefici che causano la morte. Qualche interessante informazione ulteriore sull’esito di incontri con i defunti può esser tratta — ma appunto non più relativa a credenze bretoni su «morti malefici» — da alcune note dell’opera di Le Braz: a Guémené-sur-Scorff si pensa che l’Ankaw, primo morto dell’anno, strangoli quanti muoiono dopo di lui; nell’isola di Skye, le «lavandaie» morte di parto, se vedono esse per prime chi le osserva, provocano la perdita dell’uso degli arti [19].
Nel folclore irlandese e scozzese, la bean (banshee) e la bean nighe (una «lavandaia» chiamata talvolta Little­-Washer-by-the-Ford) — esseri femminili soprannaturali annunciatori di morte delle tradizioni gaeliche, simili per alcuni tratti alle kannerezed-noz — non causano danni fisici né uccidono, ma gemono per chi sta per morire o ne lavano gli abiti. Esiste però nelle Highlands una variante di indole malvagia della banshee, la baobhan sìth. In un racconto riportato da D. A. MacKenzie in Scottish Folk-Lore and Folk-Life, quattro fanciulle appaiono ad altrettanti cacciatori: di questi, tre muoiono dissanguati danzando in coppia con quelle loro sconosciute compagne; il quarto, che suona l’armonica, accortosi che dai corpi dei suoi amici cade del sangue, riesce a sottrarsi alla sua compagna rimanendo tra i cavalli — dagli zoccoli ferrati — fino all’alba [20].

Ci sfugge presumibilmente qualcosa di importante riguardo alle ossa nella tradizione bretone (importante non solo perché in Le Braz si parla molto, ovviamente, di cimiteri e ossari) [21]: si veda quanta riferito da Ginzburg su racconti folclorici, miti e riti di resurrezione di animali (ed esseri umani) dalle ossa, non sempre però integre e complete [22]. Si noti a tale proposito come in alcuni dei testi bretoni presi in esame le braccia vengano «spezzate», in altri viceversa «torte», il che suggerisce ulteriormente una contrapposizione “ossa rotte”/“ossa disarticolate” (e quindi intere).
Qualche particolare inoltre, potrebbe far pensare a collegamenti con le valenze magico/religioso-rituali riconoscibili nell’avvolgere/legare/annodare, nello strangolare (o impiccare, ovverosia forme di uccisione incruenta), nell’immergere e poi bollire (sempre uccisione incruenta, contrapposta a quella cruenta).

Già negli Otia imperialia di Gervasio di Tilbury, nel capitolo LXXXVI — De lamiis et nocturnis laruis — della III decisio, si parla di persone che di notte, tra le altre azioni commesse, arrivano a «disgregare [o: disarticolare] le ossa degli uomini e talvolta ricomporle secondo un ordine diverso»: «uidentur [...] ossa hominum dissoluere, dissolutaque nonnunquam cum ordinis turbatione compaginare» [23].
Lecouteux e Marcq, non avendo trovato altre tracce di questa credenza, ritengono si debba vedere in essa «la semplice reminiscenza» del carattere diabolico delle sorcières, che appunto incarnano «il disordine, il caos, il rovesciamento dei valori correnti e il rinnegamente della fede cristiana» [24].
Più diffuso in effetti nel folclore risulta l’elemento ossa rotte. Gli stessi Lecouteux e Marcq, però senza specificarne la fonte, rammentano il caso di chi, uscito in una sera di tempesta per raccogliere le sue pecore, rischia di non tornare più a casa, e può essere infatti trovato morto al mattino, con le ossa rotte, ad opera di spiriti o ritornanti [25].

È lecito chiedersi a questo punto quali morti violente o improvvise fossero associate alle «lavandaie» o ad altri «morti malefici» dai Bretoni del XIX secolo. Poiché nelle credenze e nei racconti esaminati si parla in prevalenza di corpi stritolati/schiacciati, e in secondo luogo percossi a morte, bisogna prendere in considerazione gravi incidenti, soprattutto avvenuti all’aperto e sulle strade: persone travolte dopo il tramonto o all’alba da carri, talvolta ubriachi giacenti a terra, non visti a causa del buio; oppure individui aggrediti e presi a bastonate [26]. È certo che nell’Ottocento non erano rarissime le morti per caduta da cavalio o carro [27] (e si cadeva pure dalle finestre o da altri luoghi alti, per non parlare di incidenti sul lavora o suicidi), ma con tutta probabilità non erano questi i casi che potessero far sorgere il sospetto che certi cadaveri fossero stati strizzati dalle «lavandaie notturne».

Riguardo invece alla rottura/distorsione delle braccia, non si possono escludere incidenti e violenze simili, ma certamente di minor entità se non accompagnati da decesso, la qual cosa mi spinge a credere che i malcapitati, specie se colti alla sprovvista, talvolta ubriachi, o assaliti alle spalle, abbian potuto pensare o far/lasciar credere agli altri d’aver incontrato degli «esseri della notte» — taluni potrebbero aver scelto una spiegazione in qualche modo più “onorevole” anche nel caso di una violenta lite terminata non certo con una vittoria; e poi, è forse necessario venga denunciata all’autorità una aggressione o una disgrazia subita o colpevolmente provocata di notte, se in paese tutti, o quasi, credono alle kannerezed-noz?


[1] Voyage dans le Finistère, par Cambry, revu et augmenté par Émile Souvestre, Brest, Come et Bonetbeau, 1835, p. 20 [in: http://books.google.it/books?id=Rm32310wpkIC].
Nell’edizione del Fréminville (1836) il passo differisce dal corrispettivo dell’edizione del Souvestre solo per il singolare «le bras». Il singolare viene riportato anche da Le Braz nella sua citazione: «Les laveuses, ar cannerez noz, qui vous invitent à tordre leurs linges, qui vous cassent le bras si vous les aidez de mauvaise grâce, qui vous noient si vous les refusez» [A. Le Braz (1990): t. II, p. 239].

[2] Forse in questo caso si credeva che le vittime sarebbero morte per dissanguamento.

[3] A. Le Braz (1990): t. II, p. 239.

[4] Le Braz suppone che le kannerezed-noz potessero esser state in origine delle fate delle acque [A. Le Braz (1990): t. I, p. LIV].

[5] P.-Y. Sébillot (1998): 195.

[6] Si potrebbe però immaginare che le «lavandaie» di Cambry, che tra quelle presentate nel catalogo di J. Berthou sono le uniche ad affogare alcune loro vittime, siano figure nate da una possibile contaminazione con qualche tradizione relativa ad annegati.

[7] Alla p. 20 indicata supra nella nota 1. Cfr. anche J. Berthou (1993): 9, in cui, tra l’altro, le «lavandaie di notte» del passo di Souvestre sono citate nella forma «Cannerez-Noz».

[8] Lettera del 13.2.1994.

[9] O sei, se consideriamo quello che le lavandaie avrebbero potuto fare alla donna di Landéda [→ 5ª parte e qui sotto alla nota 11].

[10] Nella “7ª parte” ho citato il passo de Le Guide de la Bretagne, in cui Gw. Le Scouëzec, riferendo la credenza sulle «lavandaie della notte» circolante nella zona di Brasparts, ricorda che chi si imbatte in quegli Anaon non deve torcere i loro sudari, altrimenti il suo sangue «s’en écoulerait», e così morirebbe per la rottura delle mani causata appunto dalle «lavandaie» [Gw. Le Scouëzec (1989): 126]. Ritenendo che — in mancanza di una testimonianza integrale e possibilmente di una leggenda — il particolare del sangue (come s’è visto [→ 6ª parte], non certo gran che presente nei racconti bretoni presi in esame) potrebbe esser un’aggiunta dello stesso Le Scouëzec così come di un anonimo narratore, si può, se non altro, dubitare che la gente a Brasparts credesse che le «lavandaie» provocassero la morte sempre e soltanto per dissanguamento delle persone tante poco accorte da strizzare i sudari.
Comunque, credo sia da escludere la perdita copiosa di sangue per emorragia esterna, mentre non le è quella per emorragia interna.
Nel folclore in genere il “dissanguamento” mi pare piuttusto un fenomeno lento, causato da esseri succhiatori quali vampiri, incubi (si pensi al Mora degli Slavi), streghe e striges, che siano ritenuti responsabili del deperimento graduale e della conseguente morte delle loro vittime; viceversa, nel caso di morti improvvise e violente la limitata fuoriuscita di sangue (il quale, detto per inciso, in tali occasioni rimane o ridiventa fluido), normalmente non viene nemmeno nominata. Inoltre, l’uso di termini quali strangolamento, soffocazione, rottura del collo, stritolamento, annegamento, per spiegare i decessi, uso che sembrerebbe abbastanza preciso, credo celi in varie situazioni quelle che potrebbero essere state le vere cause di morte improvvisa delle persone che nelle credenze e leggende son diventate le vittime degli esseri della notte [cfr. P. Barber (1994): 21, 168, 216, 219, 269-70].

[11] In A. le Braz (1990): t. I, p. 333, nota 1, si ricorda il racconto di «lavandaie notturne» (narrato da L.-F. Sauvé in Annuaire des traditions populaires, t. III, pp. 16-8) in cui una delle «lavandières» dice a una donna che sta tornando da un battesimo, che in caso contrario «l’avrebbe così ben “torta, disattorta, ritorta, che mai nessun dipanatore di matasse sarebbe stato capace di sbrogliare ciò che avrei fatto di te”». Si tratta della storia della donna di Landéda ricordata anche da P. Sébillot [→ 5ª parte].

[12] A. le Braz (1990): t. I, pp. 404, 406; t. II, p. 305.

[13] A. le Braz (1990): t. II, p. 434.

[14] Cfr. F. Cardini (1984): 159-60, 207-11, 221.
Per quanto riguarda i testi letterari e folclorici, cfr. ad esempio, il cauldron delle streghe nel Macbeth e la caldaia o il paiolo della strega pedofaga in certe fiabe europee, la più nota delle quali forse è Hänsel e Gretel.

[15] C. A. Mastrelli (1982): 89-90.

[16] A. Le Braz (1990): t. II, p. 220.
Nel folclore slavo e prussiano dei vampiri/"spettri" e i Mora non solo succhiano il sangue, ma anche, come gli incubi, soffocano le loro vittime [P. Barber (1994): 27-8, 265-6, 269-70].

[17] A. Le Braz (1990): t. II, pp. 225-31.

[18] A. Le Braz (1990): t. II, p. 254.

[19] A. Le Braz (1990): t. II, pp. 230-1, 239, 254; t. I, p. 111.

[20] Cfr. K. Briggs (1985): 10-2, 14-5.

[21] Un esempio: nella storia La coiffe de la morte (raccontata da Pierre Simon — Penvénan, 1889) a un giovane che a mezzanotte, assieme a un neonato non ancora battezzato, riporta in un ossario un teschio, le ossa dei morti gridano che, se il bimbo non fosse stato ancora da battezzare, le ossa di tutti e due sarebbero state sparse in mezzo alle altre [A. Le Braz (1990): t. I, p. 334].

[22] C. Ginzburg (1989): 137, 190, 225-30.

[23] Gervasio di Tilbury (2009): 148-9.

[24] Cl. Lecouteux, Ph. Marcq (1990): 27, 30.

[25] Cl. Lecouteux, Ph. Marcq (1990): 11. È probabile si tratti di una tradizione medievale inglese. Oppure di un episodio simile a quello contenuto nel racconto islandese di Torolf «gambastorta», in cui si narra di un pastore che, non rientrato con il gregge a casa, venne ritrovato morto il mattino dopo presso la tomba di Torolf, tutto nero e con le gambe fratturate [M. Scovazzi (1973): 59], o a quello del pastore Thorgaut cui un revenant ruppe le ossa la vigilia di Natale, come si racconta nella Saga di Grettir [Cl. Lecouteux (1986): 104].
Sul «rispetto delle ossa» (che non devono esser spezzate), cfr. J. Chevalier, A. Gheerbrant (1988), s. v. Ossa.

[26] Cfr., in A. Le Braz (1990): t. II, pp. 1-7, quanto riferito su morti in incidenti e assassinati.

[27] Cadendo da cavallo o da un carro ci si può rompere il collo: incidenti del genere non potrebbero essere stati spiegati come esito di incontri con esseri soprannaturali del genere di Yannig an aod (Iannic-an-od, Yannic-ann-od, Iannic-ann-ôd)?