Gallico *iuos "Taxus baccata"


«Il tasso (ivin in bretone) è l'albero dell'immortalità perché sempreverde e di una longevità straordinaria. I cimiteri bretoni senza tassi non sono veri cimiteri. Ha anche la fama di essere il più antico degli alberi. La mazza del dio druido Daghda era di tasso così come la sua ruota. Si scrivevano incantesimi in ogham su legno di tasso. Quest'albero ha anche un simbolismo militare: si facevano scudi e aste di lancia con il suo legno.»

Tratto da: Divi Kervella, Emblèmes et symboles des Bretons et des Celtes, Coop Breizh, Spézet 1998, p. 17.



Il “tasso sanguinante” di Nevern 

<br><br>Il “tasso sanguinante” di Nevern <br><br>


Il “tasso sanguinante” (stillante linfa rossa) del cimitero della chiesa di Saint Brynach a Nevern, Pembrokeshire (Galles).







venerdì 25 marzo 2011

Su alcune peculiarità del Catholicon di Jehan Lagadeuc


Nel dizionario mediobretone-francese-latino Catholicon di Jehan Lagadeuc, specie di manuale di latino per i chierici bretoni, composto nella seconda metà del XV sec. [1], è riportato — come attesta il Glossarium mediae et infimae latinitatis del Du Cange, s. v. MASCA, Mascha — il termine mascara:
«Catholicon Armoricum: Gueen, Gall. Faux visage, Lat. Larva, quod vulgo dicitur Mascara» [2].
Nella riproduzione, a cura di Christian-J. Guyonvarc’h, dell’edizione del Catholicon del 1499 (Tréguier), alla voce gueen (pp. 102-3) si legge in effetti:
Gueen. g. [gallice: in fr.] faulx visaige l. [latine] hec [= f.] larua/ue
quod vuIgo dicitur mascara Item cest ca [-]
lamache des bateaux ou malefice achan [-]
teur par art de dyables. Item larvo/as.
ac. g. [genere attivo] vestir faux visaige. Item laruat’ [-us/]
a/um. g. [gallice] vestu de faux visaige/ ou possi=
de [-é] du dyable Item hec laruula/le di. gal. [diminutivo francese]
petit faulx visaige.
Con tutta probabilità l’Autore — Jehan Lagadeuc — ha trovato «quod vulgo dicitur mascara» in un glossario latino-francese del XIV-XV secolo [3] tratto dal Catholicon (1286) di Giovanni Balbi da Genova (più noto come Giovanni da Genova). In questo difatti, alla voce larva, si legge: «simulacrum quod terret, quod vulgo solet dici mascara quare opponitur faciei ad terrendum pueros» [4], formulazione in cui è evidente la rassomiglianza con la definizione di mascha data da Uguccione da Pisa, riportata in Du Cange: «MASCHA, eidem Ugutioni, larva, Simulacrum, quod terret, quod vulgo dicitur Mascarel, quod apponitur faciei ad terrendos parvos». Giovanni infatti sistemò in ordine alfabetico il materiale lessicale contenuto nelle Magnae Derivationes di Uguccione (seconda metà del XII sec.-1210) [5].
Non si può comunque escludere che Lagadeuc abbia consultato una copia manoscritta del Catholicon (che venne diffuso in numerose copie: si noti l’omonimia delle due opere), poiché la composizione del Catholicon «bretone» risale a prima del 1464, data del manoscritto, ovverosia dovrebbe essere antecedente — almeno di poco — alla prima edizione a stampa (Magonza 1460) dell’opera del Balbi [6].

Se dunque è sicuro che il lessico di Giovanni Balbi costituì il modello seguito e utilizzato — direttamente o indirettamente — dal Lagadeuc, solo un’analisi comparativa potrebbe dirci quanto dell’opera del secondo dipenda dal lessicografo genovese o da altri compilatori. Certo che il «quod vulgo dicitur mascara» si spiega solo ricorrendo a quella più antica testimonianza d’ambito nord-italiano, giacché in francese, per il XV sec. [ad esempio in Mostrelet (1390-1453): «Faulx Visages» [7], e nello stesso Catholicon], è attestato ancora faux visage [8] e solo a partire dalla fine del XV sec. o più probabilmente dal 1511, masque. Né d’altra parte mascara può ritenersi un termine propriamente mediolatino. Pertanto è giusto chiedersi se Lagadeuc abbia semplicemente commesso una svista oppure quanto fossero a tratti imprecise, sommarie le sue conoscenze della lingua latina e di quella francese.
Guyonvarc’h nota a tale proposito che il francese che ci dobbiamo aspettare dal Lagadeuc «non è sempre quello dell’Île-de-France» e che nel latino del Catholicon talvolta il Du Cange stentava a «ritrovarsi» (per non parlare degli errori di stampa o di traduzione) [9].
In effetti la forma visaige, che troviamo anche nelle voci medio bretoni facc e visag [10], sembra piuttosto appartenere — stando a Edouard e Jean Bourciez — non al franciano (per il quale ci si aspetta ed è attestato visage), bensì a una varietà orientale o nord-orientale del medio francese [11]. O meglio si potrebbe pensare — con Christiane Marchello-Nizia e Gaston Zink — a palatalizzazione dell’-a- (-age > -aige: [-aʒ] > [-ɛʒ]), manifestatasi prima di tutto nelle varietà dialettali dell’Ovest, del Nord, dell’Est, e secondariamente nell’Île-de-France, tanto da esser presente in Maistre Pierre Pathelin (farsa probabilmente del 1464/1465) [12].
Sta di fatto che nel Catholicon, accanto a forme in -aige sono presenti parecchi vocaboli in -age (anche questi dal latino volgare -aticu): courage (s. v. courag, p. 48), mariage (s. v. dimiziff, p. 63), voyage (s. v. erguerz, p. 78), sauluage (s. v. goez, p. 96; ma anche beste sauluaige, s. v. aneual, p. 8).

Siccome il Catholicon (1464) può essere ritenuto il più antico vocabolario francese, in quanto composto prima dell’edizione (1487) di quello latino-­francese del Garbin, si dovrebbe altresì operare un dettagliato confronto tra queste due opere per sapere quanto e a quali lavori lessicografici precedenti si siano rifatti ambedue gli autori.
Qui posso solo limitarmi a constatare, per prima cosa, che la definizione di larva del Garbin, riportata in Godefroy (1880-1902), s. v. talemache: «faux visaige ou talmache de bateaux ou enchanteur», è molto simile a quella di gueen: «g. faulx visaige l. hec larua/ue quod vulgo dicitur mascara Item cest calamache des bateaux ou malefice achanteur par art de dyables». Quest’ultima presenta alcuni errori o varianti, non so se imputabili all’editore (lo saranno senz’altro i difetti nella punteggiatura): «dyable» è presente anche alla voce dyaoul (p. 60) però assieme a «deable» [13]; «calamache» è cattiva lettura di «talemache»; compaiono sia «faulx» che «faux».
Tutte e due le definizioni comunque contengono la forma «visaige» e l’errato «bateaux», da leggersi «bastiaux», plurale di bastel (‘gobelet’), per cui la seconda espressione dovrebbe essere correttamente: «talemache des bastiaux». Se nel glossario Aalma, al n. 6544, si legge — cito dall’articolo di Hans Erich Keller alla voce mask- del F.E.W. [14] — la seguente definizione di larva: «faux visage ou calemache des bastiaux ou malefice enchanteur par art de deable», si può arguire che Lagadeuc abbia attinto proprio a quel glossario, risalente alla fine del XIV sec. Ma come si spiega il «visaige» (anche, a quanto pare, nel vocabolario di Garbin)? Era già presente in copie dell’Aalma?
Facilmente spiegabili di per sé invece le forme faulx: si tratta di un ripristino, solo grafico, della -l-, operato in epoca medio francese per influsso del latino [15]. L’alternanza con «faux» potrebbe dipendere da una presumibile incertezza grafica o tipografica oppure da un eventuale uso di fonti diverse da parte di Lagadeuc.


[1] Manoscritto del 1464; prima edizione a stampa, ad opera di Jehan Calvez, del 1499.

[2] Trascrivo qui di seguito l’intera voce contenuta in: Du Cange et al., Glossarium mediæ et infimæ latinitatis. Niort: Favre, 1883-1887, t. 5, p. 293, coll. b-c. (consultabile in “http://ducange.enc.sorbonne.fr/2010/MASCA”):
MASCA, MASCHA. Ugutio : Masca, stria. Lex Longob. lib. 1. tit. 11. § 9. [Roth. 379.]: Nullus præsumat aldiam alienam, aut ancillam, quasi strigam, quæ dicitur Masca, occidere. Lib. 2. tit. 11. § 3. et Edictum Rotharis tit. 77. [197.]: Si quis eam strigam, quod est Masca, clamaverit, etc. Gervasius Tilleberiensis MS. de Otiis Imper. decisione 3. cap. 88: Lamias, quas vulgo Mascas, aut in Gallica lingua strias, Physici dicunt nocturnas esse imagines, quæ ex grossitie humorem animas dormientium perturbant, et pondus faciunt. Arverni etiamnum Masques, scorta vocant. In Glossario Saxonico Cottoniano Egesgrimma, exponitur masca: vox composita ex Egesa, horror, terror, et grimma, fæda oris species, siquidem vox Grimace apud nostros hac notione inde orta sit, quod prorsus reor. [Vide Grimm. Mythol. Germ. pag. 586. Talamasca, pag. 513. Egesgrima, pag. 146.]
Masco, Provincialibus etiamnum sagam, veneficam sonat. Hinc Gallicum Masque, larva natum arbitror, quod primum deformes essent ejusmodi larvæ atque turpes, quales vulgo finguntur mulierculæ illæ veneficæ. Vide Menagium in Orig. Gall. voce Masque.
Mascha, eidem Ugutioni, Larva, Simulacrum, quod terret, quod vulgo dicitur Mascarel, quod apponitur faciei ad terrendos parvos. Joannes de Janua habet Mascara. S. Althelmus, de 8. Vitiis:
Sic quod Mascharum facies cristata facessit,
Cum larvam et Mascham miles non horreat audax,
Qui proprio fretus præsumit fidere gestu.
Catholicon Armoricum: Gueen, Gall. Faux visage, Lat. larva, quod vulgo dicitur Mascara.
Vide Talamasca.
◊ Alias Faux-visage. Monstrel. vol. 3. ad ann. 1449. fol. 10. r°.: Se nommoient et faisoient appeller ces malfaicteurs (Anglois) les Faulx-visages, pour ce qu'en ce faisant ces choses, ilz se vestoient et deguisoient d'habits dissolus et espouventables, afin qu'on ne les cogneust. Inter vestes, quæ domesticis et officialibus præbebantur a principibus, recensentur in Comput. Rob. de Seris ann. 1332. incœpto, ex Reg. 5. Chartoph. reg. fol. 3. v°: Item baillié et délivré... xij. cotes de samit longues pour dames et pour chevaliers,... et pour xij. Faux-visages avec les cheveleures de soye deffilée pour chascune cote avec les Faux-visages. Vide infra Visagium falsum.
[3] Cfr. J.-P. Chauveau (1993): 127-8.

[4] G. Balbi (1490, 1495): s. v. Larua.

[5] Cfr. V. Branca (1973): 33 (articolo di Giovanna M. Gianola).

[6] Cfr. J. Lagadeuc (1975): XI, XXVIII, CXVIII, CXXII (n. 29).

[7] J.-Cl. Schmitt (1988): 209, n. 8.

[8] Dal 1338 [A. Rey (1992): s. v. visage].

[9] Secondo J.-P. Chauveau si tratterebbe di un francese dell’Ovest e della Bretagna [J.-P. Chauveau (1993): 131].

[10] J. Lagadeuc (1975): 82, 206.

[11] E. et J. Bourciez (1978): 62.

[12] Ch. Marchello-Nizia (1992): 75; G. Zink (1991): 237. Guillaume Picot ritiene che in quella farsa advocassaige sia una forma dialettale anglonormanna e froumaige normanna e al tempo stesso parigina [Pathelin (1991): 23, 79].

[13] Si legge «par art de deabIe» nella definizione di larva tratta dal glossario AaIma, in F.E.W. (1969): s. v. mask- (n. 35, a p. 440); cfr. Ch. Marchello-Nizia (1992): 57.

[14] F.E.W. (1969): 440.

[15] Cfr. E. et J. Bourciez (1978): 187-8; G. Zink (1991): 239.



Bibliografia

• Giovanni Balbi (1490, 1495): Johannes Balbus, Catholicon, Venezia [Biblioteca Nazionale Marciana, Inc. V. 186 e 390].
• Edouard et Jean Bourciez (1978): Phonétique française, Paris, Éditions Klincksieck.
• Vittore Branca, a cura di (1973): Dizionario critico della letteratura italiana, Vol. II, Torino, UTET.
• Jean-Pierre Chauveau (1993): Sur le français du Catholicon de Jehan Lagadeuc, in «Études Celtiques» XXIX, 1992, pp. 121-36.
• Du Cange et al., Glossarium mediæ et infimæ latinitatis. Niort: Favre, 1883-1887 (8 tomi consultabili in “http://ducange.enc.sorbonne.fr/2010/”) [prima edizione, in tre tomi: Charles du Fresne, sieur du Cange, Glossarium Ad Scriptores Mediae et Infimae Latinitatis, Paris, 1678].
F.E.W. (1969): W. von Wartburg, Französisches Etymologisches Wörterbuch, Basel, 6 Band / 1. Teil.
• Jehan Lagadeuc (1975): Le Catholicon de Jehan Lagadeuc, dictionnaire breton-latin-français du XVe siècle. Reproduction de l'édition de Jehan Calvez (Tréguier 1499) [edizione e introduzione di Christian-J. Guyonvarc’h], Rennes, Ogam – Tradition celtique.
• Christiane Marchello-Nizia (1992): Histoire de la langue française aux XIVe et XVe siècles, Paris, Dunod [1979].
Pathelin (1991): La farce de Maistre Pierre Pathelin [a cura di Guillaume Picot], Paris, Larousse [1972].
Pathelin (1994): La farsa di Maistre Pathelin, a cura di Domenico D’Alessandro, Parma, Pratiche Editrice.
• Alain Rey (1992): Dictionnaire historique de la langue française, sous la direction d’A. Rey, Paris, Le Robert.
• Jean-Claude Schmitt (1988): Religione, folklore e società nell'Occidente medievale, Bari, Laterza [ed. or. 1986].
• Gaston Zink (1991): Phonétique historique du français, Paris, Presses Universitaires de France [1986].

martedì 15 marzo 2011

Le «lavandaie notturne» nel Veneto e in Istria



Le «lavandaie notturne», come tipi specifici di esseri fantastici, appartengono alle diverse tradizioni popolari d’Europa [1]. Sulla base delle loro particolari caratteristiche possono esser classificate grosso modo in tre categorie (dai contorni non sempre distinti): «esseri fantastici», «morti», «streghe» [2].

Diffuse in tutto il Triveneto montano, ma con nomi e caratteristiche che variano da una zona all’altra (Anguane, Angoane, Inguane, Aiguane, Aivane, Gane, Vane, Oane, Longane, Ongane), sono le Anguane, «amiche delle acque». Il loro nome deriverebbe dal latino popolare aquana ‘ninfa d’acqua’, ‘ondina’ (etimo proposto da Angelico Prati) — cfr. la forma aiguana attestata in Giacomino da Verona (XIII sec.) [3], i termini friulani Aganis (Anguane) e aghe ‘acqua’ [4]. A tale proposito, Dino Coltro osserva: «si può dire che l’anguana o aquana rappresenti una fata dell’acqua» [5]. Esiste anche l’ipotesi: anguana < latino anguis ‘serpe (d’acqua)’, suffragata dai racconti del Vicentino in cui le Anguane si mutano in serpe [6].
In genere si dimostrano miti; talvolta appaiono come bellissime giovani o sirene [7], talaltra come brutte vecchie malevoli, oppure si ritiene abbiano piedi caprini. Spesso abitano in caverne: se ne conoscono sui monti Lessini (e qui si ritiene perfino che le Anguane dopo il tramonto divorassero gli incauti passanti) e in altri luoghi del Veronese, ai piedi del monte Grappa, nel Cadore (a Pieve rapiscono donne e bambini), sui monti sopra Cortina, presso Chiusaforte (Udine), ai piedi del monte Bedolè (Primiero).
In vari luoghi si racconta facessero il bucato di notte: ad esempio, sul monte Summano (Verona) tale attività veniva svolta ogni sabato.
Nel loro insieme le Anguane possono essere annoverate tra gli esseri fatati [8], ma — rileva Carlo Lapucci — a differenza delle fate, non sono immortali, né hanno poteri illimitati [9].
Particolarmente interessante, però, quanto rileva Raffaello Battaglia (1948-49): «Un elemento che le leggende sulle "Anguanes" hanno in comune con quella sulle anime dei morti potrebbe essere quello relativo alla loro attività di lavandaie notturne. Rumor di panni lavati nell’acqua dei ruscelli s’ode talvolta nelle campagne durante la notte, secondo i racconti popolari; e il viandante che l’ode s’affretta ad allontanarsi, perché sa che è opera di anime che vengono dall’oltretomba» [10].

Riguardo alle Anguane delle tradizioni del Bellunese e del Cadore, rimane fondamentale quanto riferito da Angela Nardo Cibele in Superstizioni Bellunesi e Cadorine, in «Archivio delle Tradizioni Popolari», Palermo, 1885; ne riporto pertanto i passi che mi paiono più rilevanti.
« Dall’Auronzo, procedendo fino a Cortina, a poco a poco la personalità della Redodesa si perde e si confonde. Essa cambia del tutto il suo nome e diventa Anguana. È però sempre lei malgrado la mutazione del nome ed anche qui resta fedele alle sue consuetudini, tanto è vero che ogni femmina s’affretta a terminare di filare la sua rocca se nò vien l’Anguana. [...]
« [...] Le Anguane ed Oane o Longane che vengono confuse dal volgo con le streghe e con la stessa Redolosa, hanno una storia pietosa e gentile che mi venne raccontata in tutti i paesi che ho visitati da Pieve a Cortina. [...]
« Le Anguane abitavano per quei di Pieve a Lagole tra i canneti e negli antri. « A Valesella, a Calalzo ed altrove, scrive il Ronzon, si nota ancora il così detto Creppo delle Anguane. Erano donne coi pie’ de capra, che in Auronzo si chiamavano per antonomasia « le pagane, depè caura, dove che le se buteva i putei sule spale e zò dala montagna le veniva a tavar. Le gera roba forestiera, vedeu, e adesso le à desmesso o le xe morte tute.
« A Cortina le Anguane stavano sopra Cadin, montagna che è a Nord-Est del paese. A Lagusin, sotto Loretto Basso, avevano fama di bravissime, famose; persin lavoravano e ricamavano di notte. Vi è qualcuno che conserva fazzoletti ricamati da esse!! A Cortina invece si chiama la liscia delle Anguane il bucato mal riuscito, appunto per la loro abitudine di far tutto di notte, il che è impossibile riesca bene. Ciò è in contraddizione con la fama che hanno dovunque di brave massaje.
« Dice la tradizione generale che fossero di faccia bellissima ed avessero lunghe mammelle che gettavano dietro le spalle per allattare i loro bimbi raccolti entro ceste attaccate al dorso. [...] »
A tali notizie Nardo Cibele fa seguire tre storie cadorine sulle Anguane, nella seconda delle quali si racconta che un mago liberò il paese — a quanto pare, Calalzo — da quegli esseri femminili, che aveva raccolti su un carro pronunciando la formula: «In nome di Dio e dela Madona I car e rode e duto (tutto) de Pagogna». «E — così termina la storia — tutto d’un tratto scomparve, e tutto diventò Pagogna.» [11]
La Nardo quindi continua col narrare altre due «fiabe» (due varianti), sempre cadorine, in cui però le Anguane protagoniste sono piuttosto delle tipiche «streghe» (due donne) che si ungono (solo la testa) ed escono salendo per il camino, per raggiungere nel primo caso il luogo del loro convegno (il monte Rite), nel secondo l’abitazione della loro vittima, un «bambino da latte», nella quale cercan di entrare sotto forma di gatte [12].

In alcuni luoghi del Veneto, le «lavandaie notturne» hanno altri nomi, pur non cambiando più di tanto caratteri e funzioni.
Dino Coltro ricorda le Fade Bianche della Valle del Brenta: «abitavano i covoli delle Fade (Collicello di Valstagna [Vicenza]) da dove uscivano di notte a stendere il bucato». E ancora le Bele Butele di Campofontana (Verona), che erano chiamate anche Strie, Angoane e Stroliche: «aiutavano le donne di casa a lavare e asciugare il bucato», ma soltanto se era bianco; «lavoravano di notte», dall’Ave Maria della sera fino all’Ave Maria della mattina, quando rientravano nei covoli (‘grotte’) [13].

Sui monti Lessini, nel territorio di Velo e Roverè Veronese (in cui permangono tracce della cultura cimbra), si narra che la regina delle fade al chiaror di luna «lava la sua bellissima veste e la stende su una fune tirata da un versante all’altro del Vajo del Brutto, dalla Bante alta alla Bante bassa» (bante = ‘parete rocciosa’) [14]. Allo stesso modo pone ad asciugare il bucato (due grosse ceste) delle fade dei Covoli di Velo, la più bella di tutte le fate della Lessinia, cioè Aissa Màissa: su una corda tesa da una parete rocciosa a quella di fronte, sopra la Valle del Covolo, e «nelle notti di plenilunio» [15].

Simili alle fade (della Lessinia centrale) e alle stesse anguane anche le Genti Beate del territorio di Giazza (Verona), paese cimbro: abitatrici dei covoli, le Sealagan Laute, Hoalagan Laute (così son chiamate in cimbro) sono delle «creature ambivalenti» in quanto si mostrano talvolta come donne, talaltra come «rappresentanti del mondo dei morti»; «appaiono nel passaggio tra la notte e il giorno e tra il giorno e la notte»; in alcuni casi si dimostrano benevole e aiutano i contadini, in altri invece sono «streghe cattive, pronte a recar danno a chiunque»; non sono temibili quando lavano la biancheria e la stendono su una corda tirata tra «lo Sealagan Kuwal e il monte della Grol» [16].
Ma sulle «lavandaie notturne», delle credenze un tempo tanto diffuse quali aspetti sopravvivono nel Veneto d’oggi?
A tale domanda ha dato risposta Marisa Milani, docente di Letteratura delle Tradizioni Popolari, che con la collaborazione dei suoi studenti ha raccolto alcune delle, presumo, ormai ultime tracce [17] della tradizione relativa a diversi esseri folclorici del Veneto.
La Milani suppone che originariamente le anguane fossero «ninfe delle acque»: sono così cambiate nelle loro caratteristiche, nella loro funzione, da risultare ormai delle «maligne lavandaie notturne» — e nel Vicentino il termine anguana è perfino diventato sinonimo di «puttana» [18].
Le anguane lavano e stendono il bucato, e inoltre cantano melodiosamente (per questo Giacomino da Verona stesso le ha accostate alle sirene). Vivono sui colli Berici (Vicenza), sulle Alpi e le Prealpi.
Nelle testimonianze raccolte nel Vicentino a iniziare dal 1979-80 gli intervistati le definiscono «donne» (talvolta alquanto ciarliere: per «accostamento con lingua»), «fantasmi», «gente» («non erano streghe»), «bestie» (talvolta simili a rettili), «done grande, vestie de bianco» (in una storia un’anguana si sposa, in seguito muore e ritorna sotto forma di serpe). A Domegge di Cadore (Belluno) vengono chiamate «le Longhe Longane» e si dice rubassero i formaggi nelle cantine (si racconta anche là di una moglie «anguana», però dai piedi di capra).
Vivono invece per lo più nella bassa pianura e sulla costa le fate, le fade. «Si incontrano al lavatoio [nelle campagne] o in riva ai torrenti: sono gli spiriti di donne morte di parto, esseri infidi e pericolosi. Donano ricchezze, ma al loro apparire bisogna nascondere ogni ferro puntuto o tagliente; i doni spariscono appena le promesse siano disattese; sono donne bellissime e spesso si mescolano ai viventi, ma la loro vera natura diabolica si manifesta con i piedi stravolti o caprini.»
Sono spesso confuse dalle persone intervistate con le streghe e le anguane (si pensi soltanto ai piedi di capra della longana nel racconto sopra accennato).
Del resto, nelle testimonianze quasi esclusivamente vicentine, padovane e trevigiane riportate dalla Milani nel capitoletto intitolato Fate e streghe (dedicato per l’appunto a fate e «fate-streghe»), si ritrovano più elementi caratterizzanti le stesse anguane: il bucato notturno (il battere forte che sveglia chi dorme, l’impossibilità di vederle), la biancheria posta ad asciugare su fili, il canto; talvolta lavano e stendono al chiaro di luna, hanno vesti bianche (o dei veli). Oltre che «fate»/«fade»/«fave», erano chiamate e/o ritenute «spiriti», «streghe» («sarà stà streghe, no so»), «strighe».
Solo in un caso si ricorda che erano anime di donne morte di parto (a Barbisano, Treviso); in un altro che avevano «i pie roversi» (a Rosà, Vicenza) [19].

Le «lavandaie» istriane — delle «Streghe lavandaie» — sono protagoniste di una leggenda che è stata rielaborata da Achille Gorlato ed Elio Predonzani nella loro raccolta Poesia di popolo. Leggende istriane [20]. Sono streghe che di notte amano andare alla fontana del villaggio a lavare i loro panni (è una delle loro passioni).
Queste «lavandaie» (che si immaginano bruttissime) per la loro rumorosa attività, come è evidente, si fanno ben sentire, però non si riesce a vederle.
Si ritiene inoltre che entrino nelle case in cui sanno ci sia un bambino cattivo e, afferratolo, lo portino alla fontana, ove lo tuffano e lo sbattono fino a farlo morire, e poi continuano così e lo torcono, «come se non s’accorgessero che non è uno dei loro lerci panni».

Quelle streghe, dunque, paiono non frequentare la fontana di giorno, quando viene usata dalle donne “normali”, come se non solo non volessero mescolarsi a queste, ma anche non potessero farlo in quanto «esseri della notte» in tutto e per tutto [21].
Quelle streghe entrano nelle case, ma come facciano non vien detto. E noi sappiamo che vi sono nel folclore europeo altri «esseri della notte» che entrano nelle case con l’intenzione di rapire e/o uccidere i bambini. Ma nella leggenda istriana i bambini sono quelli cattivi, e questo è un motivo che con tutta probabilità si è aggiunto in una fase più recente. Abbiamo in effetti a che fare con delle figure i cui tratti risultano un po’ contraddittori e confusi [22]. Non si può escludere che un tempo fossero spiriti malefici, forse morti senza requie, che per «antropomorfizzazione» [23] son diventati streghe con la funzione di spauracchio.


[1] Per la Bretagna (e la Francia), cfr. i post dal titolo “Le kannerezed-noz” [dalla “Bibliografia” alla “14ª parte”].

[2] Dario Spada (1989), che le chiama «lavandaie fatate», occupandosene nel suo Gnomi, fate, folletti e altri esseri fatati in Italia [Milano, SugarCo, pp. 188-9], le divide in tre classi: Fate, Streghe, Fantasmi «irrequieti che scontano in questo modo la loro pena eterna». Le ritiene una discendenza delle «Creature delle acque, fantomatiche lavandaie che lavano nottetempo le loro vesti e le battono con battipanni d’oro» (creature sulle quali, purtroppo, l’Autore null’altro dice). Hanno, in genere, vesti bianche e «lunghi capelli arruffati e scarmigliati». Sono presenti in vari luoghi, dall’Istria alla Sardegna.

[3] «Erano, allora, creature bellissime e dalla voce incantevole, come quella delle sirene, superata solo, secondo l’affermazione di Giacomino da Verona, dalla voce soave dei lodatori celesti della gloria divina:
El ben ve digo ancor en ver sença bosìa,
ke, quant’a le soe voxe, el befe ve paria
oldir cera né rota né organo né symphonia
né sirena né aiguana né altra consa ke sia.
E nel Trecento Francesco di Vannozzo così s’inebria della sua amata:
perché san ben che tu sei sola enguana,
con quelle carni eburnee over di seta,
che paron latte con color di grana.»
[Manlio Cortelazzo (1994): Parole venete, Vicenza, Neri Pozza, p. 219.]

[4] In Friuli la Agane viene chiamata anche Sagane, nomi che nel dizionario Il Nuovo Pirona (1935) vengono tradotti ‘strega, fata’. Si legge inoltre — sempre sotto la voce Agàne, sagàne — un’interessante informazione: «Presso Clauzetto [Pordenone] il Clap [‘pietra, roccia’] des Aganes, su cui le donnicciuole scorgono le orme delle streghe, che vi si radunano per i loro conciliaboli» [Giulio Andrea Pirona, Ercole Carletti, Giovanni Battista Corgnali (1988): Il Nuovo Pirona, Udine, Società Filologica Friulana].
Nel “vecchio” Pirona (Jacopo Pirona, Vocabolario friulano, Venezia, 1871) — così com’è riportato da D. Spada (1989): cit., pp. 23-4 — sulle Saganes presso Clauzetto vien detto che «quando erano sorprese dal suono delle campane dovevano ballare loro malgrado», «rubavano fanciulli, e li cuocevano per mangiarseli»: li mettevano a bollire in una pentola (ma una volta un bambino riuscì a gettare una «cuoca strega» nella pentola, e da quel giorno «non si videro più menare le loro infernali ridde»).
Maria Savi Lopez (1889) [Leggende delle Alpi, Torino, Loescher, p. 256], delle Aganis del monte Canin (che chiama «divinità femminee»), riferisce due elementi: «i piedi rivolti all’indietro» e l’abitudine di divorare quanti sconsideratamente «di notte si avvicinano alla loro dimora».
A sua volta, Anton von Mailly (1922) ha potuto rilevare nel suo Leggende del Friuli e delle Alpi Giulie [Gorizia, 1989, Libreria Editrice Goriziana (ed. or.: Leipzig, 1922), pp. 91-2]:
Qualche volta le streghe vengono anche chiamate “Aganis” (lis aganis). Queste sono demoni femminili con i piedi rivolti all’interno. Portano sventura all’imprudente che di notte si avvicina al loro nascondiglio. Uno di questi nascondigli è una caverna presso Chiusa [...]. Anche sullo Judrio [torrente sul confine delle province di Udine e Gorizia] sono state avvistate streghe intente a sciacquare i panni al chiaro di luna.
Esseri non ben definibili dunque — streghe, fate, demoni — le Anguane, ma dai tratti tipici di tante «streghe».
E come non associare il nome sagane alla voce letteraria saga, ‘strega, fattucchiera’, dal latino saga, ‘id.’ (cfr. sagace e presagire), e al nome proprio Sagana, quello della strega compagna di Canidia, descritta all’opera da Orazio nelle Satire? [Cfr. Alfred Ernout, Antoine Meillet (1985) : Dictionnaire étymologique de la langue latine, Paris, Éditions Klincksieck (4e tirage), s. v. sagus.]

[5] Dino Coltro (1987): Leggende e racconti popolari del Veneto, Roma, Newton Compton, p. 36.
Sulle Anguane, fondamentali le informazioni contenute nelle pp. 34-7. Cfr. inoltre: M. Cortelazzo (1994): cit., pp. 219-21; Daniela Perco, Carlo Zoldan, a cura di (2001): Leggende e credenze di tradizione orale della montagna bellunese. I, Seravella, Edizioni della Provincia di Belluno, pp. 29-50; Dino Coltro (2006): Gnomi, anguane e basilischi. Esseri mitici e immaginari del Veneto, del Friuli-Venezia Giulia, del Trentino e dell’Alto Adige, Sommacampagna, Cierre edizioni, pp. 56-9.

[6] Anguane è stato accostato anche al teonimo celtico Adganae [Elisabetta Guardalben (1991): Gli esseri fantastici nella cultura rurale, in Cultura popolare del Veneto. La terra e le attività agricole (a cura di Manlio Cortelazzo), Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale - Amilcare Pizzi, pp. 229-30; D. Perco, C. Zoldan (2001): cit., pp. 29, 33-4; http://www.eim.gov.it/files/uploads/SLM_n_14.pdf].

[7] Dino Coltro descrive le Anguane come «fanciulle d’acqua bellissime, vestite di bianco che compaiono solo di notte, quasi sempre agli uomini, intente a lavare e a stendere i loro panni» [D. Coltro (2006): cit., p. 13].

[8] Dino Coltro precisa: «[le Anguane] appartengono alla famiglia delle Fade, così sono indicate le fate venete, che non hanno niente a che fare con le fate delle fiabe» [D. Coltro (2006): cit., pp. 13-4; sulle Fade (ritenute da alcuni «anime purganti»), cfr. le pp. 24-6].

[9] Carlo Lapucci (1991): Dizionario delle figure fantastiche, Milano, Garzanti, pp. 41-2.

[10] Raffaello Battaglia, La «vecchia col fuso» e la filatura del lino nelle tradizioni popolari, in «Ce fastu?», XXV-XXVI, 1948-49, pp. 101-14; riproposto in: Gian Paolo Gri, Giuliana Valentinis, a cura di (1985): I giorni del magico, Gorizia, Libreria Editrice Goriziana, pp. 116-34 — il passo da me citato si trova a p. 120.
Utili indicazioni ed osservazioni sulle Anguane, viste come ninfe alpine, sono contenute nel saggio di Battaglia, soprattutto le connessioni con le figure della Redodesa e delle altre «vecchie col fuso» (anche d’ambito tedesco e slavo).
Redodesa, o Redosega (Redòdesa, Redòsega), termine usato nel Bellunese, è uno degli antichi nomi veneti della Befana [a Venezia, esisteva la forma (A)redodese accanto alla voce maràntega, un tempo comune]. Il termine potrebbe essere connesso al fatto che la notte dell’Epifania è l’ultima delle dodici (dódese) del periodo natalizio; ma si ipotizza anche una derivazione dal nome Erodiade.
La Redodesa è un essere fantastico nei tratti più simile agli orchi, ad altri esseri femminili malefici, che non alla vecchia che porta o riempie di frutta e dolciumi la calza che un tempo i bambini trovavano appesa alla catena o alla cappa del focolare. Cfr., oltre al lavoro della Nardo Cibele: M. Cortelazzo (1994) ): cit., pp. 225-30; Marisa Milani (1994): Streghe, morti ed esseri fantastici nel Veneto oggi, Padova, Esedra editrice [4ª edizione], pp. 313-8; pp. 59, 72, 75-6; D. Coltro (2006): cit., pp. 128-30.

[11] La pagogna, informa la Nardo stessa, è la viburnum lantana, vale a dire la lantana, arbusto dai rami flessibili, che, come si riferisce in nota, veniva adoperato sì per far cesti, scope e legar le siepi, ma anche come difesa da streghe e «strigarie» («Le streghe si risentono soltanto delle legnate di viburno, le quali sole sono sentite ed hanno virtù di ridurle in fin di vita»).

[12] Del lavoro di Nardo Cibele, ho riportato alcuni passi citati da Giambattista Bastanzi (1993) ne Le superstizioni delle Alpi Venete, Vittorio Veneto, De Bastiani Editore [Treviso, 1888], pp. 11-7, riproducendo le virgolette così come compaiono in questo testo.

[13] D. Coltro (1987): cit., p. 36 e (2006): cit., p. 58.

[14] Cfr. l’antico alto tedesco want, il ted. Wand, ‘parete’.

[15] Attilio Benetti (1983): I racconti dei «Filò» dei monti Lessini, Museo di Camposilvano - Museo di Boscochiesanuova, pp. 39-­41 e 52-7.

[16] E. Guardalben (1991): cit., p. 237; D. Coltro (2006): cit., pp. 27-8.

[17] Coltro rileva: «Nel Veneto, gli episodi con protagoniste le Anguane, si raccontavano fino agli anni venti e dopo, e si indicano ancora adesso, grotte e covoli dove hanno abitato le Anguane» [D. Coltro (2006): cit., p. 59].

[18] «Con l’attenuarsi o lo scomparire della credenza il nome passa a definire la donna che esce sola di sera» [M. Milani (1994): cit., p. 292].

[19] M. Milani (1994): cit., pp. 201, 284-95, 299-306; sulle fade, cfr. altresì E. Guardalben (1991): cit., pp. 228-9.

[20] A. Gorlato, E. Predonzani (1956): Poesia di popolo. Leggende istriane, Trieste, Arti Grafiche Villaggio del Fanciullo, p. 79.

[21] D’altra parte il loro rendersi invisibili si giustificherebbe con il timore di essere riconosciute, ma allora si dovrebbe ipotizzare lavassero «i loro cenci» anche di giorno, per non far insospettire i loro compaesani.

[22] È piuttosto diffusa, a livello di credenze popolari, una certa confusione tra donne «streghe» e spiriti femminili malefici, confusione che si riscontra già in epoca antica e altomedievale (ad esempio nell’Edictum Rothari).

[23] Vari esseri soprannaturali dell’Antichità (demoni femminili, spiriti dei morti...) hanno subito il fenomeno dell’antropomorfizzazione: da esseri soprannaturali sono divenuti esseri umani — si pensi alle striges greco-romane che sono diventate «streghe».

lunedì 7 marzo 2011

Le kannerezed-noz. 14ª parte



Le «lavandaie» in altre regioni della Francia

Nel Catalogo della mostra Les Lavandières de la Nuit, nella Présentation Jean Berthou rileva che la credenza nella leggenda delle «lavandaie» è in Francia «una delle più diffuse»: la si ritrova nell’Alvernia, nel Limusino, nell’Autunois, nel Nivernese, nel Berry, vale a dire in diverse regioni centrali della Francia, ma anche in Normandia. Non potendosene occupare più di tanto in una pubblicazione riguardante la Bretagna, Berthou inserisce accanto ai documenti folclorici bretoni due testimonianze significative provenienti rispettivamente dal Berry e dalla Normandia.

La prima fa parte di una raccolta di dodici leggende, pubblicata nel 1858 con il titolo di Légendes Rustiques, composta da George Sand mettendo assieme testi già apparsi tra il 1851 e il 1852 nella rivista “L’Illustration”.
Vi si narra delle Laveuses de Nuit ou Lavandières, «anime di madri infanticide» che di notte battono e torcono senza sosta i cadaveri dei figlioletti indesiderati che appunto loro stesse hanno ucciso — ecco dunque la gravissima colpa che nella storia di Jeannic C. (Cadic) si può “leggere tra le righe”. Era possibile incontrarle presso pozze, sorgenti o fontane; non le si doveva osservare né disturbare, per evitare di essere afferrati, battuti e strizzati.
George Sand riferisce di aver udito più volte la notte i colpi delle mestole da bucato, e di aver scoperto che si trattava in realtà del rumore fatto da una particolare specie di rana, non dalle «terribles sorcières» [→ 5ª parte]. Tale appellativo la Scrittrice adopera ancora — «sorcières des lavoirs» — nel riportare il racconto fattole da un amico, di un incontro con una «lavandaia» avvenuto attorno alle undici di sera: era una vecchia donna, sconosciuta, che non rispose alle sue parole, che lavava e torceva presso una fonte ghiacciata, alla luce brillante della luna [1].
È certo che si tratta di anime dannate dotate di corporeità: il termine stesso di «sorcière» rinvia a un essere femminile malefico in relazione con il demonio (si pensi all’espressione, incontrata più di una volta: «de la part du diable»). Un’ulteriore conferma la si ha dal breve testo, premesso alla leggenda, scritto dal figlio di George, Maurice Sand (il cui vero cognome era Dudevant) [2], testo in cui le «laveuses» son dette «spettri di cattive madri che sono state condannate a lavare, fino al giudizio finale, le fasce e i cadaveri delle loro vittime».
 
La seconda testimonianza, la leggenda normanna Les Lavandières de Nuit, è un racconto adattato per i giovani da Madame de Witt (nata Guizot) e pubblicato per la prima volta, a quanto pare, da Amélie Bosquet nel 1845, nella sua opera La Normandie romanesque et merveilleuse. Traditions, légendes et superstitions.
Vi si narra di una ragazza che, vinta la resistenza della madre morente, alla quale comunque promette di rientrare entro la mezzanotte, si reca alla festa di Saint-Loup a Crèvecoeur, accompagnata dal suo servitore, Tranquille. Nel piacere della danza però, non si accorge del trascorrere del tempo, finché ad un certo punto si rende conto che la mezzanotte è passata da un bel po’. Allora i due si allontanano in gran fretta e prendono una scorciatoia che attraversa prati e boschi. Ad un tratto, giungono all’estremità di un fossato presso un boschetto: qui vedono alcune lavandaie intente a battere (presumibilmente della biancheria) con la mestola e guidate da Mademoiselle de Plénefort, «danzatrice infaticabile che, per il piacere, aveva tutto sacrificato».
Si tratta dunque di un gruppo di «fantasmi», che scorgono i due e poi trascinano nella «danza funebre» la ragazza. Per fortuna Tranquille conosce la «formula magica»: «Nel nome della Santa Trinità, lasciate passare la mia promessa». Così quei fantasmi scompaiono e la storia può terminare con il lieto fine, ossia con l’annuncio di matrimonio dei due giovani. Diversamente, si può ipotizzare che sarebbe finita male per la ragazza, forse con la sua stessa morte, poiché mi pare ammissibile vedere in quei «fantasmi» femminili delle anime dannate.
 
Altri elementi informativi sulle credenze normanne relative alle «lavandaie» sono riferiti, nella Présentation, da Jean Berthou, il quale utilizzando gli scritti di Amélie Bosquet e A. Madelaine (un autore successivo), evidenzia come le testimonianze oscillino tra due poli, quello delle «fate» e quello dei «revenants». In alcuni casi si tratta di «Femmes Blanches» o «Dames Blanches»: «spettri» dall’aspetto femminile che sorprendono di notte i viandanti smarritisi, ma risparmiano le partorienti — va sottolineata l’importanza di questo motivo (associabile a quello delle «madri di famiglia numerosa») che si contrappone in qualche modo alla gravità della soppressione dei figli non voluti —; «possono essere assimilate alle fate maghe [fées magiciennes] di cui non sono che delle degenerazioni fantastiche». In altri casi si tratta di «revenants» tipici, cioè di anime del purgatorio: «si riconoscerà qui — rileva Berthou — un tratto comune con la versione di Souvestre» [3].
 
Per quanto concerne altre aree della Francia, come s’è accennato nella “5ª parte”, si trovano notizie sulle «lavandaie di notte» ne Le folk-lore de France di Paul Sébillot, che ha rilevato una quindicina [4] di esempi nel capitolo V del II tomo (Les eaux dormantes) [5], esempi che ripropongo qui di seguito.
 
• «A un lavatoio presso Oberbronn, in Alsazia», le lavandaie che lo frequentavano di notte potevano vedere una «dama bianca», la quale, in silenzio, lavava delle camicie che si credeva fossero quelle dei morti: «la sua apparizione presagiva la morte di un membro della famiglia di una delle lavandaie» [«Aug. Stœber. Die Sagen des Elsasses, nº 260»] — cfr. L’intersigne de «l’étang» (Le Braz) [→ 7ª parte].
• Si sentiva talvolta in alcuni luoghi la mestola di «lavandaie di notte» dalla natura «abbastanza mal definita» e che non si potevano vedere: sulle rive della Mare Branlante a Nercia (Franche-Comté), presso lo stagno della Haye [Brie] e quello di Maillebois (non lontano da Dreux [nella Région Centre] [«Ch. Thuriet. Trad. de la Haute-Saône, p. 256»; «Ladoucette. Usages de la Brie, p. 448»; «Félix Chapiseau. Le Folk-Lore de la Beauce, t. I, p. 76»].
• Nel Berry delle lavandaie battono e torcono incessantemente: si tratta delle madri infanticide di cui racconta George Sand nella leggenda Laveuses de Nuit ou Lavandières [«George Sand. Légendes rustiques, p. 30»] — cfr. le madri infanticide d’Ille-et-Vilaine (P. Sébillot) [→ 5ª parte]. Delle altre lavandaie lavano qualcosa che sembra «una specie di vapore di un colore livido, di una trasparenza spenta», un qualcosa che assume «qualche apparenza di forma umana» e sembra piangere e vagire «sotto i colpi violenti delle mestole»: si crede siano anime di bambini morti senza battesimo o di adulti deceduti prima di esser stati cresimati [«Laisnel de la Salle. Croyances du Centre, t. I, p. 123-125»] — cfr. le lavandaie dei dintorni di Dinan (P. Sébillot) [→ 5ª parte].
• Al lavatoio della Font-de-Fond (Indre [nella Région Centre]), prima dell’alba, un mezzadro riconobbe l’immagine del figlio, morto l’anno prima cadendo da un albero, in «un oggetto livido e impalbabile» che una donna, in compagnia di altre due, gli porse invitandolo a torcere [«Laisnel de la Salle. Croyances du Centre, t. I, p. 123-125»].
• Nella Creuse [Limusino] alcune lavandaie «sono condannate a lavare, al chiaro di luna e in pozze stagnanti, della biancheria che assomiglia a cadaveri di bambini, e che non diventerà mai bianca» [«Bonnafoux. Légendes de la Creuse, p. 29»] — cfr. le lavandaie dei dintorni di Dinan (P. Sébillot) [→ 5ª parte].
• Nell’Anjou [Pays de la Loire] una fattora è condannata a lavare in eterno nel luogo in cui da viva aveva fatto il bucato di domenica [«A. Le Marchand. Une excursion dans le pays des Mauges, p. 12»] — non vien detto se di giorno o di notte; cfr. le donne che hanno lavato di domenica in Alta Bretagna (P. Sébillot) [→ 5ª parte].
• In Touraine chi lava il 25 marzo («jour de la Notre-Dame») sarà costretta a tornare a farlo tutti gli anni alla stessa epoca e allo stesso lavatoio fino alle prime luci dell’alba [«Léon Pineau, in Rev. des Trad. pop., t. XIX, p. 430»].
• Nel Berry, sia pure abbastanza raramente (giacché di solito compiono il loro lavoro in silenzio), le «revenantes du lavoir» fanno sentire «un canto sordo e monotono, triste come un De Profundis» [«Laisnel de la Salle. Croyances du Centre, t. I, p. 123»].
• Nella Bassa Normandia vi sono le Mille-Lorraines (o Villes-Lorraines), «donne-fate» vestite di bianco, che di notte cantano «in ginocchio sulla pietra levigata dei lavatoi»; «fermano presso i gradini il viandante attardato che entra nel prato ove è situato il lavatoio che esse frequentano, e lo costringono a strizzare la loro biancheria; se lo fa male, gli rompono le braccia» [«Barbey d’Aurevilly. Une vieille maîtresse, Paris, 1857, in-18, p. 266»].
• Nel Poitou, una donna recatasi al lavatoio prima dell’aurora, vi trovò una «lavandaia dell’altro mondo», per cui fuggì prima che questa potesse rivolgerle la parola [«Léo Desaivre. Le Monde fantastique, p. 10»] — cfr. la storia di Jeannic C. di Brennilis (Cadic) [→ 4ª parte], Les Lavandières de Nuit e La Lavandière des Noes Gourdais (P. Sébillot) [→ 5ª parte].
• Un ragazzo, passando «vicino a una fossa rotonda in un prato dell’Indre» [Région Centre], luogo di incontro delle «lavandaie di notte», si rivolse a una donna che lavava pensando fosse una vecchia vicina: «subito una sorta di grande donna di colore rossiccio si lanciò su di lui avvolgendolo di panni insanguinati» — cfr. la storia di Jeannic C. di Brennilis (Cadic) [→ 4ª parte], per il particolare dei panni insanguinati. In altri casi queste lavandaie — soggiunge P. Sébillot — «afferrano l’imprudente, lo battono nell’acqua e lo torcono né più né meno che un paio di calze» [«Maurice Sand, in Rev. des Trad. pop., t. II, p. 524 ; George Sand. Légendes rustiques, p. 31»].
• In Vandea, chi percorrendo un argine di stagno la sera del Venerdì santo si ferma ad ascoltare le «lavandaie nere», resta affascinato e al tempo stesso terrorizzato dal battere regolare di una mestola. Quando ad un tratto il rumore cessa, tre donne lo circondano, gli dicono: «Il tuo lenzuolo ti attende!» e lo gettano nello stagno. «Tre giorni dopo il lenzuolo lo avvolge» [«G. de Launay. in Rev. des Trad. pop., t. V, p. 353»] [6] — queste «lavandaie» risultano dunque (anche) annunciatrici di morte.
• Sulle rive dello stagno di Roc-Reu (Calvados [Bassa Normandia]), attorno alla mezzanotte lavavano gemendo uno o più «grandi spettri avvolti da lenzuoli». Se il mugnaio rivolgeva loro la parola, gli dicevano: «Percorri la tua strada, ti perdono». Ma se diventava importuno, impaurivano le sue mule. Una sera il mugnaio volle vendicarsi e agguantò alla vita uno degli spettri, ma questo l’annegò nello stagno [«A. Madelaine, in Rev. des Trad. pop., t. XVII, p. 136-137»] — cfr., per l’affogamento, il passo di Cambry [→ 2ª parte].
• Le lavandaie che invitano i viandanti ad aiutarle sono rare nel Berry. Invece nell’Autunois si conoscevano lavandaie che lavavano i lenzuoli dei morti e «obbligavano i contadini a torcerli assieme ad esse»: i malcapitati venivano ritrovati la mattina successiva svenuti e con le braccia storte [distorte?], ma non tutti sopravvivevano all’avventura [«Léon Marillier, in Le Braz. La Légende de la Mort, 1re édition, p. 380, note»] — cfr. il testo di Erwan Berthou [→ 8ª parte].
• Nella Svizzera romanda le Gollières à Noz, lavandaie di notte dall’aspetto di belle ragazze ma malvagie, fanno il bucato al chiaro di luna presso fontane e stagni solitari; «invitano i viandanti ad aiutarle, ma se questi, per distrazione, torcono all’incontrario, esse gli torcono il collo» [«A. Ceresole. Légendes des Alpes vaudoises, p. 72»] [7] — cfr. Les lavandiéres de nuit de Pont-ar-Goazcan (Luzel) [→ 4ª parte] e Les Lavandières de nuit (E. de Cerny) [→ 8ª parte].
• In un villaggio di Vaucluse [Région Provence-Alpes-Côte d’Azur], si raccontava che in un certo luogo si vedevano delle lavandaie di notte. La guardia campestre vi si recò e scorse «due forme bianche che strizzavano della biancheria», alle quali intimò di cessare il loro lavoro. Ma una lavandaia gli gridò di darle una mano, mentre l’altra lo prese per il bavero e gli ordinò: «Torci!». Egli lo fece fino all’aurora, quando le lavandaie se ne andarono. Durante la giornata si venne a sapere di un grosso furto commesso in un castello vicino: poiché la biancheria era sporca, i ladri s’erano messi a lavarla dopo essersi camuffati con una vestaglia bianca, «contando sulla superstizione del paese per non essere disturbati» [«H. Vaschalde. Croyances et superstitions du Vivarais, p. 14»].
 
A queste testimonianze vanno aggiunte quelle relative alle «lessives merveilleuses» fatte di notte lungo i fiumi [8]. Si tratta in alcuni casi del bucato notturno di revenantes:
• alla Souterraine [Limusino], all’una del mattino del Corpus Domini si udiva un battere di mestole sulle rive del fiume, attribuito a giovani annegatesi per una piena improvvisa [«A. de Chesnel. Dict. des superstitions, col. 541-545»] — cfr. la testimonianza relativa a Calorguen (P. Sébillot) [→ 5ª parte];
• nei Vosgi [Lorena] delle donne morte lavano i loro lenzuoli nei ruscelli: si crede che chi parla loro morirà nel corso dell’anno [9] [«Charles Sadoul, in Rev. des Trad. pop., t. XIX, p. 89»];
• ogni sette anni, a mezzanotte, una «dama bianca» lavava i suoi abiti nella Sarre ad Abreschwiller (Meuse) [Mosella, nella Lorena] [«Ph. Salmon. Dict. arch. de l’Aube, p. 48»].
 
In altre regioni o paesi le lavandaie notturne appaiono altresì come fate [10]:
• le fate dei Pirenei, del Poitou, del paese della Hague, del Bocage normanno [Bassa Normandia] (e dell’Ille-et-Vilaine) facevano il bucato la notte; quelle che stendevano i lenzuoli su una pietra piatta nel mezzo del letto della Druance, si sentivano battere ma non si vedevano [«Vidal. Guide des Pyrénées orientales, p. 505 ; Rev. des Trad. pop., t. VI, p. 570 ; P. Bézier. Mégalithes de l’Ille-et-Vilaine, p. 239 ; J. Fleury. Litt. orale de la Basse-Normandie, p. 55 ; J. Lecœur. Esquisses du Bocage normand, t. II, p. 427»];
• un ruscello del Vivarais [Région Rhône-Alpes], presso Montréal, ha nome lou Vola de los fados ‘il ruscello delle fate’; di esse si può sentire a mezzanotte il rumore delle mestole e vedere la biancheria stesa ad asciugare al chiaro di luna [«H. Vaschalde. Sup. du Vivarais, p. 15»].
 
In vari luoghi della Provenza invece (sulle rive di fiumi quali il Gapeau, l’Argens, il Var) «si parla di masche o streghe» dall’aspetto di graziose ragazze che di notte fanno il bucato; ridono, cantano e cercano di attirare i viandanti attardati, per farli danzare fino alla morte o spingerli nell’acqua [«Bérenger-Féraud. Superstitions et survivances, t. II, p. 7»]. Si tratta forse — ipotizza P. Sébillot — di fate demonizzate [11].

 
[1] Forse l’episodio si svolse durante la stagione autunnale: ricordando le sue personali esperienze, ­la Sande tratteggia un brumoso paesaggio novembrino come sfondo delle apparizioni delle «terribili streghe».
 
[2] Probabilmente Maurice, che ha illustrato con disegni quella raccolta e altre opere della madre, aveva composto quel breve testo come didascalia al disegno (e alla litografia trattane) scelto per Les Laveuses de Nuit.
 
[3] Sulle due leggende: J. Berthou (1993): 12-3, 68-72.
 
[4] Su 32 esempi rilevati nel capitolo V, 24 provengono dalla regione dell’Ovest (Bassa Bretagna 8, Alta Bretagna 9, Poitou 2, Normandia 3, Touraine 1, Anjou 1), 6 dal Centro (Berry 4, Marche [Creuse, Indre] 2), 2 dall’Est (Svizzera Romanda 1, Alzazia-Lorena 1) [P. Sébillot (1968): 431].
 
[5] P. Sébillot (1968): 424-31.
 
[6] In un capitolo precedente, P. Sébillot riferisce che «gli stagni delle parti basse delle dune di Noirmoutier» [Vandea] «sono frequentati da delle lavandaie di notte» le quali rompono le braccia ai viandanti che le aiutano e «li portano non si sa dove» [P. Sébillot (1968): 102-3].
 
[7] Sulle Gollières, cfr. quanto scrive Maria Savi Lopez: «le gollières a noz, o lavandaie di notte, sono bellissime fanciulle ma perfide ammaliatrici. Esse al chiaror della luna lavano vicino alle fontane isolate. Se chiedono aiuto ad una persona che passi, bisogna usare molta attenzione per contentarle ed evitare d'incorrere nel loro sdegno» [M. Savi Lopez (1889): 337-8].
 
[8] P. Sébillot (1968): 351-3.
 
[9] Come riferisce A. Le Braz, in Scozia si credeva che per aver parlato a un fantasma si potesse morire. Anche in Bretagna si raccomandava di non interpellare i morti [A. Le Braz (1990): t. II, pp. 204, 220 e t. I, p. 416].
 
[10] Le «lessives macabres» risultano assai rare nell’Occitania [P. Sébillot (1968): 431].
 
[11] Sono masche, vale a dire ‘streghe’, anche le lavandaie della leggenda Le lavandaie del mulino di Cossila, narrata da Virginia Majoli Faccio ne L’incantesimo della mezzanotte [V. Majoli Faccio (1940): 178-80 e (1957): 176-8.].
Si tratta di «tre belle e giovani donne» che di notte lavano i panni alla «“rôgia” (canale) del mulino di Cossila» e, «suadenti», invitano i viandanti ad aiutarle a torcere le lenzuola.
Una notte d’estate «passò ben vicino alla “rôgia” uno che era forestiero e perciò ignorava la sinistra fama del luogo».
La luna splendeva... Tre belle e giovani donne, inginocchiate sulla sponda erbosa, lavavano al canale cantarellando una canzone d’amore.
Il forestiero, affascinato dalla bellezza delle giovani, si fermò a conversare:
– Anche di notte, belle, attendete al lavoro?
Ambigua fu la risposta:
– Anche... è anzi di notte che noi “lavoriamo meglio”.
Una giovane quindi chiese all’uomo, con successo, di aiutarla a strizzare il suo lenzuolo bagnato:
La donna resse il lenzuolo da un capo, l’uomo dall’altro, e cominciarono a spremerlo.
– Su forza, torci – invitava la lavandaia, mentre le altre due bofonchiavano:
– Belzebù, belzebù, presto avrai l’anima sua!
– Non hai forza? Ma su, dunque...
– È quello che sto facendo, ragazza, ma di mano in mano che io do uno strizzone, sento come una mano che lo dà al mio collo.
All’ultima strizzata, «il giovane avvertì un laccio formidabile ed invisibile serrarglisi attorno al collo»:
– Aiuto! soffoco, muoio! – urlò e cadde a terra esanime.
La Majoli Faccio, nella sua "trascrizione", ha senza dubbio accentuato ripetutamente la soavità incantevole della voce e della figura delle tre giovani e l’incanto dei luoghi e della notte d’estate [sulle leggende «rinarrate in stile enfatico» dal trascrittore, si veda G. L. Beccaria (1987): 34]. Comunque la leggenda è delineata nelle sue componenti folcloriche fondamentali: le belle e giovani lavandaie notturne; il lenzuolo da torcere; l’uccisione della vittima per soffocamento — attraverso una stretta che grazie ai poteri diabolici posseduti dalle masche passa, per una specie di connessione analogica, dal lenzuolo strizzato al collo del malcapitato viandante.
Ciò che qui è diverso in modo più manifesto, è la natura degli esseri ostili: sono streghe, non anime di trapassati; streghe il cui scopo è di procurare nuove anime a Belzebù.
È però vero che le masche, protagoniste di tanta tradizione popolare piemontese e soprattutto biellese, non sono spesso distinguibili dalle fate (come testimoniano anche l’alternanza in alcuni toponimi: Piani delle Streghe, Rocce delle Masche, Grotte delle Fate, o la compresenza di masche e anime dannate in qualche località): «appartengono entrambe al mondo del magico, entrambe sono ombrose e vendicative» [T. Gatto Chanu (1989): 29 (nota 34)]. E si deve ancora tener presente che al sabba si mescolano anche anime dannate [cfr. T. Gatto Chanu (1989): 32] e che se gli spettri si fanno vedere e sentire di notte, lo stesso fanno le fate.
Nel complesso, le masche del Mulino di Cossila, in quanto esseri maligni, assomigliano per alcuni tratti alle «lavandaie» bretoni — spettri di dannati —, per altri alle streghe — donne maligne. Inoltre non sono le uniche figure di lavandaie notturne della tradizione biellese (piemontese e alpina): si posson qui menzionare la «diabolica lavandaia» di Zumaglia [che stende il bucato «nelle giornate temporalesche», cfr. V. Majoli Faccio (1940): 76-7 e M. Savi Lopez (1889): 337], gli Arfai della Valle di Susa e i Jafè del Biellese [cfr. V. Majoli Faccio (1940): 198-9]; nessuna di queste figure fantastiche è una strega, si tratta invece di esseri fatati o spiriti.